DALL’INTELLETTO ALL’INTELLIGENZA

 Di: Phan-Chon-Ton

         Quando chiesi su quale tema si voleva che parlassi oggi, mi è stato risposto: sul Corpo Mentale.

         Ho già trattato questo argomento l’anno scorso a Cervignano, ma è bene riprendere questo studio.

         Occorre innanzitutto definire bene questa parola. Secondo il dizionario latino-francese, mens, mentis, significa: Principio pensante, mente, intelligenza, ragione. Noterete che, nella mente delle persone “normali” questo termine è un miscuglio di molte cose tra le quali spesso non viene fatta molta differenza.

         Ho già indicato il senso della parola pensare, che viene da – pesare - che significa “pesare”. Il miglior esempio è quello della bilancia dove i due piatti appoggiano su un giogo che poggia a sua volta su un coltello: quando il numero dei pesi messi sul secondo piatto è uguale a quello – sconosciuto – dell’oggetto che si trova sul primo piatto, abbiamo realizzato l’equivalenza dei pesi: è un paragone. Un paragone suppone dunque due cose: l’oggetto sconosciuto ed il “campione”. Pesare è comparare un oggetto con un altro che si prende come campione. Come si definisce un campione? Generalmente, in maniera irrazionale.

         Per esempio, il metro: qualcuno ha tagliato un pezzo di legno di una certa lunghezza – ne ha fatto poi un pezzo di metallo molto resistente che viene conservato a Sèvres, come campione del metro.

         D’altronde, la stessa parola “campione” significa, in origine, un piolo che si pianta per delimitare un campo, poi un bastone con delle tacche per misurare l’altezza di un liquido, tutto questo in modo arbitrario. Arbitrario significa: si è deciso che sia così. Chi decide? Il nostro mentale. E poiché si è fatto intervenire il mentale, esso considera “conosciuto” il campione. Notate che, nella sua etimologia, pensare suppone che ci sia un conosciuto al quale si paragona uno sconosciuto. Vorrei anche fare appello alla nota formula di Descartes: “Cogito ergo sum”, il fatto di pensare è evocato dalla parola cogito. Questa parola è costituita da co (cum = con) agito = far muovere, spingere in avanti.

         A questo proposito, ho cercato e ricercato nel dizionario latino e non trovo la radice della parola mens.

         Il solo verbo che trovo è meo, as, are, che vuol dire anche andare, passare, circolare. Non aggiungo nulla, ma vorrei attirare la vostra attenzione sull’idea di movimento. Vedete che occorre sempre ri-pesare le parole quando si studiano, al fine di vedere da dove arriva il primo impulso che dà senso alla parola.

         Torniamo alla parola co-gito, che vuol dire far agire insieme. Avete già pensato a questo nel momento in cui vi si parla di pensare? Si vede piuttosto una persona immobile, che rimescola le cose nella sua testa. Forse proprio da là viene attinto il senso della parola cogito, agitare tutto quello che c’è nella propria testa. Citiamo un passaggio dal Potere del pensiero di Annie Besant: “Poche persone, al di fuori del cerchio di quelle che studiano la psicologia, si sono preoccupate di risolvere questo problema. Da dove proviene il pensiero? Nel momento in cui veniamo al mondo ci troviamo in possesso di moltissimi pensieri predefiniti, di una vasta riserva di ciò che chiamiamo “idee innate”. Sono delle concezioni che portiamo con noi venendo al mondo, sono i risultati condensati o riassunti delle esperienze che abbiamo fatto nelle esistenze che hanno preceduto la nostra attuale. Muniti di questo retaggio mentale, iniziamo a muoverci in questa vita, e mai lo psicologo può studiare, per mezzo dell’osservazione diretta, l’origine del pensiero. Quindi, non siamo nati “liberi” come recita la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Qui è necessario fare appello ad un altro aspetto della materia, la tendenza all’agglomerazione. Questa materia mentale messa in movimento, tende ad attirare altra materia mentale, sia della persona, sia del mondo mentale, e si rinforza quindi gradualmente, facendo di questo pensiero una specie di boccia impenetrabile. Quello che noi chiamiamo il nostro mentale è un insieme di quelle “bocce” che, insieme, si rinforzano a vicenda, per cui ne risulta una specie di sfera impenetrabile che circonda la nostra coscienza. E’ questo che viene chiamato il nostro “contenuto mentale” che, in realtà, dal punto di vista funzionale, è piuttosto il nostro “contenitore mentale”. E noi viviamo ogni giorno all’interno di questa “boccia”, che crediamo essere di cristallo ma che, vista dall’esterno, è piuttosto opaca. L’essere umano “normale” vive quindi in una boccia mentale, la cui superficie è molto liscia, e rigetta immediatamente tutto ciò che cerca di entrarvi. Ma c’è la legge della risonanza che opera: un pensiero che viene dall’esterno e che abbia la lunghezza d’onda simile ad una componente della boccia, è attirato verso di essa, ed alla fine vi è agglomerato, cosa che rafforza la boccia in grossezza ed in solidità. Ed una sensazione che viene dall’esterno, che ha una risonanza con una componente del contenuto mentale, può provocare un’uscita di questa componente e, generalmente, si crede di avere un “nuovo pensiero” ma, in realtà, questo “pensiero” non è che un vecchio pensiero che risorge con una nuova veste. Quindi, quando diciamo che pensiamo, generalmente, pesiamo ciò che riceviamo con il “campione” – o piuttosto il grande numero di campioni – che abbiamo rinchiusi nella nostra “boccia mentale”. Nella vita quotidiana, quando una sensazione od una parola si presentano, la “boccia mentale” le percepisce, le confronta con il suo contenuto e, se c’è una concordanza con una delle sue componenti, le attira e la persona ha l’impressione che l’idea sia sua, ha l’impressione di avere appena avuto un’idea”.

         Tenendo questa conferenza non dico cose nuove, faccio sorgere dal mio contenuto mentale delle cose che vi sono immagazzinate e che corrispondono al tema della conferenza.

         Quanto a voi che mi ascoltate, due cose.

         Primo, voi sentite solo ciò che concorda con quello che c’è nella vostra testa, secondo, eventualmente, volete farmi una domanda. Questa domanda corrisponde a qualcosa di conosciuto, altrimenti l’avreste lasciato andare senza trattenerlo. Quello che ho appena detto è forse un po’ duro, ma osservatevi a fondo.

         Quindi cosa facciamo? Facciamo riflettere una cosa che affiora sulla parete della nostra “boccia” mentale; se ci piace, rendiamo trasparente questa parte della superficie della “boccia” e questa cosa entra nel nostro mentale, altrimenti si riflette ed è respinta, come un raggio di luce che si riflette su uno specchio.

         E’ generalmente questa la nostra “riflessione”.

         Ma abbandoniamo tutto questo ragionamento.

         Poniamo che il nostro mentale operi come deve. E generalmente, ciò che fa, è confrontare il conosciuto e lo sconosciuto. Il suo primo lavoro è di creare un legame tra i due: è questo che viene chiamato “lavoro intellettuale”. Ed il nostro mentale è spesso chiamato “intelletto”. Questa parola viene dal verbo inter-ligere, unire (due cose) tra loro. Un altro termine che viene spesso utilizzato è anche “ragionamento”.

         Restiamo su questa connotazione della parola “intellettuale”. Vi rimando ad un passaggio della Dottrina Segreta che cito spesso, un passaggio sulla struttura dell’essere umano nel quale la seconda componente è chiamata da H.P.B. “intellettuale”, nel senso che unisce lo spirituale al fisico.

         Ma ora non entro nel dettaglio di questo argomento.

         Quando voi mi chiedete di parlare del Corpo Mentale, fate senza dubbio riferimento all’analisi teosofica dell’essere umano. Si “sa” che esso è composto dal Corpo Fisico, dal Corpo Astrale, dal Corpo Mentale, dal Corpo Mentale Superiore, dal Corpo Buddhico e dal Corpo Atmico. Ebbene, come sapete, vi raccomando di ri-pensare – ripesare tutto ciò. Per citare un esempio, non so se molti tra di voi hanno conosciuto il Professor Van der Stok, che insegnava al Centro di Naarden. Parlava del complesso astro-mentale. Diceva che non c’è separazione tra l’astrale ed il mentale, e che nella maggior parte dei casi, un pensiero è generato da un’emozione, un sentimento, e viceversa. E’ per questo che lo ha denominato “complesso astro-mentale”.

         E se noi esaminiamo bene le cose, scopriamo senza difficoltà che quello che noi amiamo sentimentalmente è generalmente “amato” dal nostro corpo fisico. Una bella torta per esempio: ci piace perché è ben presentata, ma soprattutto perché è dolce ed ha recato piacere al nostro corpo fisico. La prossima volta che la vedremo, anche se si troverà in una vetrina e non potremo fruirne, sentiremo l’acquolina in bocca.

         E quando vediamo la foto di questa torta in un menu, abbiamo desiderio di averla, e questo provoca un impulso mentale e, come succede, si pensa alla propria madre che ha l’abitudine di preparare delle torte, e, a partire da ciò, si prova affetto per la propria madre, per tutto ciò che ci ha donato, e si allarga il pensiero alla maternità, all’amore di un figlio per la propria madre, … E tutto questo cresce, cresce, ed il nostro mentale si riempie di un agglomerato di materia mentale.

         È per questo che mi permetterò di allargare il complesso del Professor Van der Stok chiamandolo “complesso fisico-astro-mentale”. Ed il novecentonovantanove per cento della nostra “vita” quotidiana è fatto dal funzionamento di questo complesso; si tratta di ciò che chiamiamo “coscienza di veglia”. Quindi generalmente, ciò che noi definiamo pensiero non è che il risultato di un ricordo, di una sensazione fisica, di una sensazione emozionale, ed in minima parte di sostanza mentale. E quando si dice questo ci si rende conto che noi non facciamo che “sognare” mentre il corpo è, per così dire, in “coscienza di veglia”: quindi noi siamo praticamente costantemente in “coscienza di sogno”. È interessante constatare che Shankara stesso parla di “sogni svegli” (Viveka, 296). Sono le cose che noi attingiamo costantemente dalla nostra riserva mentale e delle quali ci serviamo in ciò che chiamiamo la nostra coscienza di veglia.

         È rarissimo essere in “veglia”. Anche se un avvenimento ci sorprende, immediatamente il nostro mentale ricorda un evento dello stesso tipo che è accaduto in questa vita, oppure nelle vite passate, e noi ricadiamo nell’insieme delle reazioni astro-mentali che si sono costituite e che si sono rinforzate ogni volta che si è prodotto un fatto simile.

         Per riassumere, quello che noi chiamiamo “corpo mentale” è, in realtà, l’insieme dei cosiddetti pensieri che si agglomerano e che ci imprigionano. E più noi lo impieghiamo nell’operazione che chiamiamo “ragionamento”, più restiamo profondamente imprigionati.

         Esaminiamo ora il punto centrale della domanda che mi è stata posta: come usare il corpo mentale.

         Generalmente esso funziona in maniera indipendente, poiché i suoi ingranaggi sono già predisposti, e tutto questo gira senza regola né controllo. Tuttavia, di tanto in tanto, l’essere umano ha una scappatoia: una grande emozione, una sorpresa… Allora la boccia non sa più come deve girare, e siamo perduti. Sono dei momenti penosi, ma sono delle porte di uscita che non bisogna lasciarsi sfuggire, poiché, in quei momenti, essendo il mentale disturbato, sentiamo in noi qualcosa d’altro. Se arriviamo ad esserne coscienti, realizziamo che ci sono in noi altri livelli di coscienza oltre a questo mentale che viene generalmente considerato l’essere stesso. E’ quello che si chiama il risveglio.

         Questo risveglio può avvenire improvvisamente, può essere passeggero, ma lascia un segno sull’essere che se ne ricorderà, forse non subito, forse non in maniera permanente, ma questo bagliore tornerà.

         Quando si è fatta questa esperienza, si è tentati di ripeterla. E leggendo dei libri si è tentati di mettere in pratica dei consigli che vengono dati. Mi riferisco qui alle tecniche di meditazione.

         Penso di non aver bisogno di dire molte cose, poiché tutti voi dovete essere venuti a contatto con tali libri od esseri che ne parlano.

Parliamo dunque della meditazione; in primo luogo dell’allenamento del mentale.

         Secondo il Robert, la parola meditare viene dal latino meditari, termine piuttosto militare, che vuol dire esercitarsi. Invece nel Dizionario della Lingua Francese di Hachette, questa stessa parola significherebbe “pensare a”, “aver presente”, “studiare”.

         Non saprei dire quando la parola meditazione ha preso la sua attuale connotazione, soprattutto colorata di misticismo e di mistero. Ma nel contesto di questa piccola “chiacchierata” consideriamo valido quest’ultimo significato.

         Quindi, quando si pronuncia la parola meditare, si vede una persona seduta, su una sedia o su qualsiasi altro sedile, gli occhi chiusi o rivolti al cielo, che riflette profondamente, e se ci si volge ad Oriente, qualcuno seduto nella posizione del loto, le gambe incrociate, il busto eretto, la testa dritta, gli occhi chiusi o semichiusi, le mani giunte od atteggiate ad un mudra particolare.

         Secondo Patañjali ci sono tre tappe nella meditazione. All’inizio del terzo capitolo dello Yogasutra si legge:

III, 1. La concentrazione (dharana ) consiste nel fissare il mentale su un punto (desha).

2. Il mantenimento, in questo punto, del contenuto del mentale in un sottile flusso continuo è la meditazione (dhyana)

3. la quale, quando (il mentale) brilla con il solo oggetto (è tutt’uno con l’oggetto) e non ha più, per così dire, esistenza propria, là è la contemplazione (samadhi).

         E Patañjali conclude:

4. Questi tre, nell’insieme, costruiscono il completo controllo (samyama).

         Vediamo queste tre componenti l’una dopo l’altra.

“La concentrazione consiste nel fatto di fissare il mentale su un punto” (II,1). La parola punto tenta di tradurre il termine sanscrito desha. Quest’ultimo non designa il punto matematico, che non ha dimensione, ma un piccolissimo spazio od un piccolissimo volume. Non è senza dimensione, ma di dimensioni le più ridotte possibili, e di conseguenza, esiste sempre, non è “niente”.

         Il secondo termine importante è il verbo fissare. Generalmente, quando di dice “concentrare”, si ha l’immagine di un atto di raccolta, il fatto di condensare ciò che era in un grande spazio in un piccolo spazio. E’ questa la causa della confusione. La concentrazione di cui si parla non è questa raccolta, né il fatto, in chimica od in cucina, di ridurre il volume di un liquido, pur lasciandovi tutti gli ingredienti.

         Se applicassimo questo processo al nostro mentale, il risultato sarebbe che il mentale occuperebbe uno spazio più piccolo, ma resta sempre altrettanto saturo di citta-vritti, numerosi e soprattutto diversi. Non è questa la concentrazione. Al contrario qui si tratta di fissare l’occhio del mentale su un piccolo spazio della mente, facendo lo sforzo di ridurre non lo spazio, ma il campo visivo, fino a fissarci su un solo citta-vritti, e questo unico citta-vritti occupa lo spazio di un desha, di un punto. Perciò invece di dire “concentrazione” si dovrebbe dire “selezione”, o “focalizzazione” il fatto di ricondurre – non lo spazio mentale con le sue numerose componenti – ma il campo visivo dell’osservatore su uno - od un piccolo numero di componenti del suo contenuto mentale. Un altro aspetto di questo processo di selezione, di espansione, è chiamato “purificazione”. Ma torniamo alla concentrazione.

         Racconto spesso questa storia presa dal Mahabharata: Bhima, il grande arciere, insegnava questa arte ai giovani reali, tra i quali Arjuna. Un giorno mostra loro un uccello appollaiato su un ramo d’albero e chiede a ciascuno di preparare il proprio arco e di mirare. “Cosa vedete?”, domanda a turno. Il primo risponde: “Vedo un ramo d’albero con le sue belle foglie ed un uccello appollaiato in mezzo a loro”. Bhima disse: “Non tirate”! Il secondo, alla stessa domanda, risponde: “Vedo un bell’uccello,con la testa verde, il corpo rosso e le ali gialle”. “Non tirate”! A sua volta Arjuna disse: “Vedo l’occhio dell’uccello”. “Bene, allora tirate”! E’ questa la concentrazione. E, vedete, è la stessa cosa del discernimento.

         Soltanto allora, tra l’osservatore e l’oggetto più piccolo, non può che scorrere un flusso sottile e continuo di materia mentale. Sottile, poiché un grande flusso non può passare per il desha, il punto di focalizzazione.

         Tralasciamo il termine “continuo” per il momento.

         Ed è lo scorrere di questo flusso sottile e continuo che costituisce la meditazione (dhyana). Questa parola deriva dalla radice dhi che significa “vedere”, “essere con”, “essere presente a” – donde meditazione, secondo la definizione citata all’inizio. Ed è soltanto quando colui che “è là” è talmente assorbito in, integrato con, l’oggetto mirato, che sembra cessare di esistere, che raggiunge il terzo stadio, il samadhi. Questo termine, spesso definito con “estasi” – che traduce soltanto un aspetto fenomenologico possibile – significa etimologicamente “vedere” (dhi) “con” (sam), vedere tutto essendo con, nella cosa; ed il termine contemplazione, spesso usato per tradurlo, rende bene questo senso. Ed è là il significato dell’aforisma I, 41: “Quando il mentale, come un cristallo puro, non ha più contenuto manifestato, (allora) (il soggetto) percipiente, percezione e percepito si interpenetrano, come si può vedere attraverso il cristallo l’immagine esatta dell’oggetto sul quale è posto”.

         Troveremo questo aforisma alla fine. Per ora mi piacerebbe parlarvi dei tre parinama indicati nel terzo capitolo dello Yogasutra. Il dizionario dà per questa parola l’immagine di un giovane elefante curvo sulle zampe anteriori (quindi la testa in basso = nam), pronto ad attaccare (= pari). Tradurrei quindi questa parola con “sforzo”, con l’idea della fine di un lungo sforzo e l’imminenza di un’azione o di un risultato. Questo sforzo è triplo e le sue componenti sono: nirodha parinama, samadhi parinama ed ekagrata parinama.

         Nirodha significa “arresto”: è il processo che è iniziato con la focalizzazione sullo spazio più piccolo del quale abbiamo parlato prima e che, in seguito, procede, se così si può dire, con l’“arresto” della nostra visione sulla cosa osservata. Questo arresto non è solamente meccanico, poiché ogni cosa evolve, ed anche se la si osserva per un brevissimo momento, sarà già cambiata (processo che combina krama e karma); è perché questo arresto non si produce solamente nello spazio, ma anche nel tempo – e questo ha la sua equivalenza in un aspetto di calcolo differenziale ed integrale (della matematica superiore), chiamato “derivazione”: si considera la cosa che sta evolvendo durante una frazione infinitesimale di tempo, spesso designata con dt; si può dire che si osserva così la cosa nel suo stato immediato, in questo dato momento. E Patañjali afferma che, per conseguenza, si conosce allora il dharma (cioè la composizione e la natura), il laksana (l’evoluzione nel tempo) e l’avastha (la condizione) della cosa nell’istante dell’arresto (nirodha).

         In seguito, facendo ciò che in matematica si chiama una “integrazione”, si ritraccia tutta l’evoluzione della cosa. Si può pensare di ascoltare un enunciato di calcolo integrale leggendo questo aforisma (IV,33): “La successione che corrisponde all’istante infinitesimale (kshana) non può essere perfettamente compresa che alla fine del processo del cambiamento”. Ed in matematica, si direbbe, per la seconda parte della frase, che si potrebbe conseguire questo risultato integrando tutte le caratteristiche osservate in ogni istante infinitesimale all’insieme del tempo considerato. Ci concentreremo soprattutto sull’ekagrata parinama. Eka vuol dire uno e grata significa direzione. La concentrazione è quindi lo sforzo di focalizzazione in un punto, come noi l’abbiamo vista innanzi. E Patañjali dice (III, 4) che lo yoga è il perfetto dominio di questi tre parinama. E questo perfetto dominio ha come corollario la capacità, già indicata prima, di vedere la composizione (dharma) di una cosa, la sua evoluzione nel tempo (laksana) e la sua condizione (avastha). Operando “l’integrazione nel tempo”, si può dedurre l’evoluzione di questa cosa. Facendo numerose osservazioni immediate, in istanti infinitesimali, si arriva alla comprensione del fatto che (III,14): “Tutte le cose, che stiano per sparire od apparire, o non siano ancora manifestate, hanno una base comune”, base che Patañjali chiama dharmi. Quando si è raggiunta questa base, si è capaci di comprendere che tutto è solo modificazione di questa base. Una volta che si è su questa base, tutto ciò che appare, tutto ciò che è manifestato, è conosciuto.

         Quando si sono esaminati il laksana e l’avastha del dharma, si è “liberati” da questo laksana e da questo avastha. Citiamo questo aforisma di Patañjali (II,10): “Te pratiprasava-heyah-sukshmah”.

         Tutti questi klesha, una volta ricondotti allo stato sottile (o potenziale), possono essere annientati risalendo alla loro origine. Si è allora al di là del razionale, del ragionamento a catena, ma nell’essenza delle cose: E’ QUESTA L’INTELLIGENZA. Questa parola è differente dalla parola intellettuale, poiché deriva dal participio presente, intelligens, che designa uno stato permanente di comprensione delle cose, di essere alla base – dharmi – delle cose che ci sembrano distinte, separate, occasionali.

         Ricordiamo l’aforisma di Patañjali: “Quando il mentale, come un cristallo puro, non ha più contenuto manifestato, (allora) (il soggetto) percipiente, percezione e percepito si interpenetrano, come si può vedere attraverso il cristallo l’immagine esatta dell’oggetto sul quale è posto”.

Questo stato di cristallo trasparente è quello dell’ultima tappa della meditazione. Allora la Realtà appare, attraverso il mentale divenuto trasparente.

         Traduzione di Laura Bonetti.

 

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