Scienza ed Arte

Di: Annie Besant

Sono costretta questa sera a trattare due temi, ognuno dei quali meriterebbe invece una conferenza a sé, tanto sono vasti e degni di studio profondo: la Scienza e l’Arte.

La limitazione del tempo disponibile m’impone questo abbinamento il quale, tuttavia, è reso meno grave dal fatto che i due argomenti hanno in realtà fra loro un nesso comune, poiché sono entrambi, sebbene per vie diverse, lo studio della manifestazione Divina, della Divinità, cioè, che si manifesta nella Natura esterna. Scienza ed Arte sono infatti due modi di studiare l’universo fenomenico, di trarre da esso conoscenza di quell’UNO da Cui procede, della Cui Natura è un riflesso, per quanto limitato.

Simile nesso, se ben consideriamo, esiste pure con un altro degli argomenti trattati in questo corso di conferenze: la Religione. Poiché la Religione è la rivelazione dello Spirito Universale a quel frammento di Se stesso che è lo spirito umano. E ciò accade specialmente in quell’aspetto della Religione — il misticismo — di cui abbiamo parlato e nel quale l’uomo, scendendo nelle profondità del suo essere, si rende conto della propria Divinità.

Nella Scienza e nell’Arte, invece, ci troviamo di fronte alla manifestazione divina nella Natura esterna. Questi tre modi di venire a contatto con la manifestazione divina richiamano alla mente il concetto greco della Divina Sorgente di Vita, la quale veniva appunto definita il Bene, il Vero, il Bello. Il Bene, come perfetta rettitudine, da cui procedono tutte le leggi che aiutano l’uomo a raggiungere lo stato super-umano, divino; il Vero, cui l’intelligenza umana aspira, ricercandolo nella Natura esterna, accumulando fatti su fatti, cognizioni su cognizioni e riuscendo ogni tanto ad ottenere un barlume della Verità in Natura, promessa e garanzia che il Vero stesso può venir scoperto dall’umana intelligenza. E il Bello? Non scorgiamo forse nell’Arte tutto lo sforzo costante a conseguirlo? E in Natura Dio non si manifesta in Bellezza? Nulla esiste in Natura che non abbia in sé Bellezza.

Partendo da questo principio, è naturale che il pallido riflesso divino che è in noi abbia a cercare di manifestarsi in bellezza, come perfetta Bellezza è la Divinità stessa. E, per il fatto appunto che abbiamo il culto del Bello e che andiamo ricercandolo e, per quanto è possibile, tentiamo di viverlo, ci rendiamo conto che siamo un pallido riflesso di Colui che è l’essenza stessa della Bellezza perfetta che si rispecchia nella Natura intera.

La Natura, pertanto, diventa per noi la grande Rivelatrice che ci palesa la Divinità nei Suoi aspetti di Verità e Bellezza; e il pensiero umano, in ogni sua esplicazione, va divinizzandosi in Essa. Il concetto della “divinizzazione dell’uomo” è forse uno dei più profondi della teologia cattolica romana, di cui è bene ricordarci, affermando esso la possibilità per l’uomo di progredire verso la perfezione sulla quale, come sapete, si basa il culto cattolico romano dei Santi. Molti, molti stadi attraversa l’uomo prima di rivelare la propria natura essenziale come Divinità; e la Santità è l’ultimo stadio di quel processo - scientifico e mistico ad un tempo - che la teologia cattolica romana chiama “Preghiera Interna” e che fa capo alla divinizzazione dell’uomo.

Per mezzo della Scienza e dell’Arte noi andiamo alla ricerca della Natura Divina, studiando quella emanazione della Divinità che chiamiamo Natura fenomenica e che, come alcuni dei glandi Istruttori dell’umanità insistettero nel proclamare, essendo transitoria, non potrebbe esistere se non fosse quel Principio Eterno che la regge.

Il Signore Buddha, nel cercar di elevare il pensiero dei Suoi discepoli verso quel Nirvana che nessuno può descrivere - ed al quale anche le menti più elevate possono soltanto assurgere col ripetersi di continuo “Non questo, non questo”, di fronte a tutto quanto è fenomenico nell’universo che ci circonda - insegnò infatti che solo in grazia del non-creato può il creato esistere; solo per virtù dell’Eterno può esistere il transitorio.

Meditando su queste verità il nostro pensiero s’innalza sempre più, finché qualche fuggevole sprazzo di Eternità, della Natura Eterna, riesce ad illuminar le tenebre della nostra limitata intelligenza.

È interessante notare come Giordano Bruno - seguace degli insegnamenti di Pitagora, che la tradizione aveva conservati nell’Italia meridionale dove, come è noto, esistevano le grandi Scuole Pitagoriche, così come nella vicina Sicilia - nell’esporre la sua filosofia, insisteva presso gli studiosi della Natura, della Scienza, nel dichiarare che ognuno dei fatti che si andavano scoprendo in Natura costituiva, per così dire, una lettera del Nome di Dio. E la scienza stessa dell’essere, anticamente, si chiamava “Nome”.

A ciò si riferisce appunto il passo delle Scritture Egizie, ove è detto: “Che segue la propria via secondo la Parola”, quella “Parola” che esprime la perfezione della propria natura, identica in essenza e in manifestazione alla Parola Eterna che i greci chiamarono Logos e che, nel Quarto Vangelo, è chiamata “il Verbo”. Questo supremo Verbo di Natura è, per così dire, scritto nelle multiformi manifestazioni della Natura stessa, le quali tentano di esprimere nella loro totalità un debole riflesso della perfezione del Verbo Divino. Sicché, facendo nostro questo antico concetto, possiamo considerare la Natura come un gran libro che può esser letto. E lo scienziato, nella sua ricerca delle più alte verità, impiega la propria intelligenza a scrutare la Natura e con le proprie facoltà analitiche osserva, raccoglie e classifica i fatti, per poi risalire, con grande sforzo intellettuale sintetico, da quella molteplicità di forme e di fatti, accuratamente classificati, agli alti concetti della legge naturale.

Egli, munito di quella che giustamente fu chiamata “la sublime pazienza dell’investigatore”, costante nella ricerca della verità - pronto sempre a scartare le mezze verità, aspirando alla verità intera, a rinunciare a opinioni basate su sintesi imperfette, per far luogo a nuove risultanze di fatti fino allora sconosciuti - s’inerpica faticosamente, fra il visibile, su verso l’invisibile, fra i fenomeni, su verso il Dio interno. E l’opera sua può sempre più considerarsi come complementare a quella degli investigatori di altro genere, i quali percorrono la stessa via, ma in direzione inversa, scendendo giù, cioè, dalle verità fondamentali che lo Spirito ha scorte e che vanno poi passando mano a mano attraverso il prisma dell’intelletto, rifrangendo nei vari colori la grande Luce unica da cui provengono, il potere creatore che porta gli uomini all’esistenza.

In tal modo, invece di perpetuare l’antagonismo fra Religione e Scienza, che nacque dallo stretto sacerdotalismo della tradizione che erigeva il prete a unico profeta della Natura, dal che sorsero gravi conflitti in Occidente - che il dr. J.W. Draper così brillantemente e in modo scultoreo illustrò in The Conflict between Religion and Science - noi, che aspiriamo ad imparare a poco a poco a renderci conto del Divino ricercando il Suo frammento nella profondità dell’essere nostro, incominciamo a comprendere come lo scienziato non sia un nemico, ma un aiutatore, che tende alla stessa nostra mèta, pur seguendo altro sentiero; come egli sia veramente il sacerdote della Verità, degno quindi del nostro rispetto, della nostra gratitudine e del nostro amore.

La Scienza, in quanto concerne il lato sperimentale moderno, sta penetrando molto rapidamente in quel dominio che era in gran parte riservato alla Religione, allorché questa voleva differenziarsi da quella e sta veramente ridiventando quello che era anticamente, una parte della Religione stessa, un’alleata al servizio delle grandi verità spirituali.

Va così dissipandosi quella sfiducia che nacque in Europa dai conflitti fra Religione e Scienza i quali, ricordiamolo, sorsero in massima parte per il fatto che la Scienza fu portata dall’Arabia in Europa dai mori, all’ombra cioè d’un vessillo non cristiano. Ma oggi questo conflitto è superato e possiamo riconoscere che Religione e Scienza vanno entrambe ricercando la Verità, seguendo ognuna i propri metodi: l’una per mezzo dell’introspezione che conduce allo Spirito e l’altra per mezzo dell’osservazione che conduce alla rivelazione di Dio nei fatti e nelle leggi di Natura.

Questo riconoscimento diverrà più suggestivo se ricorderemo che gli insegnamenti segreti degli ebrei, come pure gli insegnamenti dei greci, affermano incessantemente, a proposito della Natura esterna, che “il mondo delle idee” precede “il mondo delle forme” il che, in altri termini, è l’insegnamento del remoto Oriente che tutte le forme sono veramente pensieri divini rivestiti di materia più densa e visibile all’occhio fisico umano, che il pensiero precede la manifestazione, e che l’Idea è la genitrice della Forma.

L’antica teologia scolastica, come viene a volte chiamata, del Medio Evo possedeva grandi verità in proposito - che però, dato il modo con cui venivano esposte, parevano strane e inverosimili ai profani ed ignoranti. Essa sosteneva esistere una differenza fra la “Sostanza” dell’Idea e gli “Accidenti” di cui questa Idea si riveste nel mondo fisico - concetto questo molto deriso, lo so, dai pensatori più superficiali, i quali non si rendono conto del significato di questo insegnamento che viceversa fa parte della grande dottrina centrale della Chiesa Cattolica romana, della dottrina della Transustanziazione. Nessuno, naturalmente, pretende che gli “Accidenti”, le semplici forme di cui la grande Idea Spirituale si riveste, veramente si trasformino; quello che si trasforma, che diventa la Vita stessa dell’Oggetto del culto cristiano, è la “Sostanza” che di sé informa il Pane e il Vino, incorporandosi in questi “Accidenti”.

Ognuno è libero di accettare o non questo concetto, ma il giudicarlo ridicolo è prova di ignoranza; e di molta ignoranza dettero prova alcuni superficiali scrittori della Riforma, nel mettere in ridicolo un antico concetto pel solo fatto che non erano riusciti ad afferrarlo.

Orbene, la Scienza sta continuamente occupandosi di questi cosiddetti «Accidenti»; e solo orientandosi verso la Filosofia, essa incomincia a prendere in considerazione ciò per cui questi “Accidenti” son tali, ciò che si cela in essi, i quali sono gli unici che possano essere percepiti dai sensi fisici. Ma, se veramente aspira alla ricerca della realtà, se al di là del transitorio (e quindi illusorio) essa tende all’Eterno, al Vero, dovrà scegliere i metodi adatti per tale ricerca e rendersi conto che l’intelletto, nello sforzo per tendere al vero, non deve dimenticare che esso è un aspetto di quell’Essere Eterno che è anche il potere che tutela e rivendica la Giustizia e che verso la Giustizia appunto guida l’evoluzione.

Sarà bene tener a mente questa espressione, che ho preso a prestito da Matthew Arnold, perché studiando la storia, il succedersi delle civiltà e lo sviluppo delle molteplici e svariate forme di organizzazione sperimentate dall’umanità nella sua faticosa ascesa, non si può non rendersi conto che la rovina, la distruzione di ognuna di queste forme successive è sempre determinata dal fatto che la civiltà, invece di incarnare la Legge di Giustizia nelle associazioni umane che costituiscono la Società, la misconosceva e oltraggiava. Questo è il motivo per cui l’una dopo l’altra le civiltà nascono, si sviluppano e poi si sfasciano e spariscono; e l’arduo problema odierno consiste appunto nel cercar di vedere se è possibile fondare una civiltà che si ispiri alle leggi fondamentali del retto vivere.

Quel Potere che tutela e rivendica la Giustizia è quello stesso da cui procede l’intelligenza umana; la quale, nell’investigare la Natura, non deve dimenticare la grande verità evolutiva: ch’essa, cioè, sta salendo a grado a grado verso un tipo di umanità sempre più elevato e che quanto poteva essere favorevole all’evoluzione del selvaggio è dannoso al crescere ed allo svilupparsi del lato divino nell’uomo.

Poiché, a misura che nel corso dell’evoluzione vanno sviluppandosi qualità più umane, va anche modificandosi il carattere della relazione fra quanto è inferiore e quanto è superiore. Sempre e ovunque vediamo che s’impone il sacrificio delle forme più basse in favore di quelle più alte. Il minerale si sgretola per costituire il terreno ove possa crescere la pianta; questa diventa cibo all’animale; nel regno animale sorge poi la lotta fra il più forte e il più debole, nella quale vanno sviluppandosi tante utili qualità, tante possibilità per una ulteriore evoluzione. Considerando infine gli animali socievoli superiori, vi scorgiamo meno astuzia e, sotto un certo aspetto, forse anche meno intelligenza nascente, ma riscontriamo invece quell’istinto socievole che li spinge a difendersi a vicenda, il più forte a difendere il più debole, il maschio a difendere la femmina, questa a difendere i suoi piccoli, creando così le prime rudimentali condizioni per una possibile società in cui gli individui abbiano a vivere insieme per aiutarsi, migliorarsi e difendersi a vicenda, e non per sbranarsi l’un l’altro; così nascono quelle qualità superiori umane le quali, dopo essersi sviluppate gradatamente per millenni, per centinaia di migliaia di millenni, tendono oggi ad affermarsi fra noi in modo più definito e più impellente.

Così stando le cose, nel considerare la Scienza odierna vien fatto di chiedersi se davvero essa tenda all’evoluzione nel seguire il sentiero sul quale oggi si è addentrata, o non se ne allontani invece, con l’impiegare l’intelligenza non già per migliorare la società, ma per distruggerla. Non sta essa forse usando le proprie scoperte recenti per creare sempre peggiori strumenti di distruzione, che permettano alle nazioni di annientarsi a vicenda, invece di usarle per diffonder pace e buon volere e felicità fra gli uomini? Possiamo quindi chiederci se sopravvivrà questa nostra società, se questa nostra civiltà potrà durare!

Se la Scienza ripete l’errore commesso nelle civiltà passate di proseguire lungo questo disastroso sentiero di distruzione, invece di seguire quello elevato e nobile del servizio e del miglioramento umano, se l’oggetto delle sue ricerche sarà tale da degradare l’intelligenza umana, se essa diventerà sorda alla voce della coscienza e della moralità, ogni suo preteso “progresso” segnerà un nuovo passo verso la decadenza.

Ad alcuni dei metodi della Scienza odierna non può non ribellarsi in noi il sentimento di compassione, di amore, del dovere verso i deboli, la coscienza che la forza dev’essere usata a proteggere, non ad opprimere; quando vediamo l’intelligenza umana e le sue meravigliose facoltà d’investigazione armarsi di strumenti di tortura per seviziare animali vivi cercando, attraverso la loro agonia, di strappare qualche segreto alla Natura, sia pure a scopo di vincere o lenire il dolore umano, non possiamo non renderci conto che la Scienza s’incammina lungo il sentiero di discesa; poiché il cercar d’ottenere un beneficio all’umanità a simile prezzo è rinnegare i principi stessi su cui si basa l’evoluzione. Sappiamo che umani son quegli esseri nei quali la compassione ha trionfato sulla crudeltà, nei quali l’amore cerca di trionfare sull’odio; comprendiamo che nessun essere veramente umano dovrebbe accettare il minimo dono ottenuto mediante la tortura di creature senza difesa, le quali dovrebbero essere aiutate dall’uomo nella loro evoluzione, mentre invece egli approfitta della loro debolezza per sacrificarle ad un suo bene immaginario.

E, quand’anche qualche reale beneficio potesse ottenersi, anche se qualche conoscenza può ricavarsi da queste vittime immobilizzate e torturate sul tavolo del vivisettore, una simile conoscenza non può che degradare, anziché elevare, non può che ostacolare l’evoluzione dell’uomo in tutto ciò che di lui fa un essere umano, ricacciandolo indietro, invece di farlo procedere verso la vera conoscenza. E a volte vien fatto di pensare che forse non avremmo avuto da subire una guerra così atroce e tante inaudite crudeltà, come l’intossicazione umana per mezzo dei gas e gli altri abominevoli mezzi di distruzione, se il senso morale di troppi scienziati non fosse stato tanto obliterato dalla lunga pratica delle torture freddamente inflitte a creature che, pur ad un grado evolutivo inferiore, sono nostri fratelli. Poiché la crudeltà ottunde e degrada l’essere umano, e il praticarla trascina a crudeltà sempre peggiori, fino al punto da far scegliere come soggetti di esperimento esseri umani stessi, privi di difesa e già sofferenti per qualche malattia che, in tal modo, fatalmente si risolve con la morte. Questi infelici sono torturati fino agli ultimi loro istanti: si inoculano loro bacilli di altre malattie terribili, poiché ci si è accorti che gli esperimenti fatti sugli animali non danno poi risultati abbastanza soddisfacenti, non essendo il loro organismo in tutto simile a quello umano e non reagendo quindi sempre allo stesso modo, ragione per cui i risultati ottenuti su di essi non sono conclusivi. Non ho bisogno d’insistere oltre su ciò. Ognuno può, per proprio conto, se lo vuole, edificarsi leggendo le numerose memorie in proposito, specialmente quelle tedesche, austriache e italiane, scritte dagli operatori stessi, i quali vi descrivono le atrocità perpetrate. E ritengo che tale letteratura giovi più ancora che non quella dovuta a coloro i quali combattono accanitamente simili atrocità, com’io stessa faccio, dopo aver letto le loro opere.

Ma questo non è l’unico modo errato di comportarci verso gli animali d’ogni specie. Vi sono, ad esempio, quei diporti che implicano la loro uccisione. È proprio sbalorditivo che esseri umani possano trovar diletto nell’uccidere creature innocue e incapaci di difendersi. Eppure si è talmente abituati a questo divertimento veramente straordinario, che non ci si rende neppur conto della sua natura obbrobriosa. Se non sapessimo che simili cose succedono fra noi e ne leggessimo per la prima volta la descrizione in qualche opera di fantasia, le riterremmo senza dubbio cose inverosimili. E vi sono molte altre forme ancora di crudeltà. Se vi dico che è crudeltà l’uccidere gli animali per nutrirsene, voi potete dissentire da me; ciò non toglie che così sia e che anche questo sia un modo indegno di comportarci verso esseri messi a nostro contatto perché li aiutiamo a progredire, non già perché li trucidiamo per soddisfare il nostro piacere. Ma anche nel campo più nobile della Scienza, allorché questa si dedica a scoperte veramente benefiche per l’umanità, intese ad accrescere il benessere e la salute, sia degli uomini sia degli animali, lì pure possiamo scoprire metodi errati, benché non perversi in se stessi come quelli cui ho accennato più sopra: alludo alla teoria circa il modo di mantenere la salute. Deve questa essere mantenuta con l’accrescere la vitalità, col seguire le norme igieniche, col far uso di cibi e bevande sani, tali da rigenerare l’organismo, oppure con lo stabilire una specie di bilancio, di equilibrio, fra veleni di varia natura, chiamando poi salute questo stato di avvelenamento… equilibrato?

Mi spiego. Si è cercato di vincere il vaiolo con l’inocularlo; ma si è poi scoperto che, dopo tutto, ciò non era conveniente, tanto che tale pratica è stata proibita dalla legge. Si è allora venuti alla vaccinazione, ad inoculare cioè un veleno meno dannoso, tratto da vacche, vitelli, ecc. Questo metodo si è talmente diffuso ovunque che oggi possiamo essere inoculati contro una quantità tale di malattie che vien fatto di chiederci se, a conti fatti, non convenga correre il rischio di ammalarsi piuttosto che sottoporsi a tanti temporanei malesseri ed al permanente depauperamento di vitalità che ne consegue.

Io non nego che una simile intossicazione possa garantire una temporanea immunità; ne abbiamo esempi con potenti veleni da tutti riconosciuti come tali.

È noto, per esempio, che chi maneggia molto l’arsenico va a poco a poco immunizzandosi contro l’avvelenamento arsenicale, i cui sintomi non si manifestano in lui se non quando abbia completamente abbandonato il lavoro che lo costringeva a maneggiar l’arsenico. Non nego, quindi, che con l’avvelenarsi in una data misura ci si possa immunizzare per alcun tempo; ma il quesito è se questo neutralizzare l’effetto di un veleno con una quantità ridotta del veleno stesso possa chiamarsi salute.

Questo io nego. Ciò implica un indebolimento di vitalità nell’individuo, il quale viene pertanto subdolamente minorato nella sua capacità di resistere ad altri malanni, pur ammettendo che verso uno almeno egli sia

per breve tempo immunizzato. Questo è un inconveniente che, a parer mio, dovrebbe esser preso in seria considerazione. Qual è il compito di chi studia medicina? Io sostengo ch’esso consiste nel trovare il mezzo per mantenere il corpo in perfetta salute, non già nell’avvelenarlo per combattere altro veleno. Egli deve, cioè, additarci gli errori che costantemente commettiamo nei riguardi dell’igiene e nella scelta irrazionale degli alimenti e delle bevande; e suggerirci un tenore di vita e una dieta razionali. Allorché una persona cade ammalata per errore dietetico, o per eccessi di qualsiasi natura, la si manda a una Spa o in qualche altra stazione del genere, per rimettersi in salute.

Non dovrebbero piuttosto i medici additare gli errori che questa nostra civiltà odierna va commettendo abitualmente: il condurre una vita troppo artificiale, il far della notte giorno, il prendere assai più cibo di quanto l’organismo non richieda, il bere bevande alcooliche, il fumare eccessivamente?

Tutti questi cosiddetti “piccoli vizi” son quelli che determinano quell’impauperamento nello sviluppo, per cui tanti uomini, durante la guerra, dovettero essere classificati inabili alle fatiche di prima linea. Io vorrei che i medici cooperassero con la Natura, col far sì che ognuno si renda conto e comprenda come le leggi di Natura sono le leggi della salute. Vorrei che voi tutti ricordaste che queste leggi di Natura non sono imposizioni arbitrarie, ma una inviolabile concatenazione, per cui l’una è conseguenza dell’altra. Con l’interferire con elementi nuovi è possibile modificare questa concatenazione di conseguenze, ma la legge

non fa che stabilire in modo inequivocabile che a una data causa tiene dietro una data conseguenza, che diventa a sua volta causa di nuova conseguenza, per un succedersi di risultati inevitabili. E la legge non può essere modificata, né violata.

Dice una scrittura cristiana che “in Dio non v’è ombra di capriccio”; e ciò è ugualmente vero per le leggi di Natura, le quali sono i capisaldi della Vita Una. Quello che io rimprovero alla medicina moderna è di occuparsi degli effetti anziché delle cause.

Oggi si è impegnata una lotta accanita contro un terribile flagello che va minando la vita stessa della civiltà. Quand’io ero fanciulla non si osava neanche pronunciare il nome di questo male in presenza di qualsiasi donna. Esso è un prodotto della “civiltà”. Oggi il suo nome lo si vede scritto ovunque, su ogni giornale, a causa appunto della lotta che contro esso si intensifica sempre più, ed alla quale tutti son chiamati a contribuire. Qual è la sua origine? Non l’uso, ma l’abuso delle facoltà sessuali. Esso è conseguenza del vizio, non già di una sana vita naturale. Proviene dall’esagerazione del grande potere creativo, smodatamente portato in attività dall’influenza della memoria, dell’anticipazione, del pensiero, cose che non si riscontrano nel regno animale, ma soltanto in quello umano. Allorché non esiste freno, allorché il vizio non è più contenuto dalla vergogna, allorché le stesse donne per bene, oneste ed illibate accolgono nei loro salotti persone notoriamente dedite al vizio, come illudersi che non abbia a dilagare un malanno originato dal volontario sacrificio delle donne, ed a riempir di sé i giornali e la mente dei riformatori? Il vizio è ormai talmente diffuso da rendere necessario che ovunque se ne parli e scriva e ciò per lo sforzo nella lotta accanita che si deve sostenere per distruggerlo.

Ma non sarà possibile eliminare malanni di nessun genere fino a che seguitano a essere violate quelle leggi di Natura, le quali sono un riflesso nel nostro mondo fisico della Natura di Dio stesso.

Soltanto col seguire queste leggi - le quali assicurano la felicità a chi le osserva - sarà possibile purificare la civiltà liberandola dai malanni che ne minacciano la distruzione. Vorrei pertanto caldamente invitare ciascuno di voi a studiare e usare di quanta influenza possedete per diffondere concetti esatti circa i rapporti fra l’uomo e la Natura esterna, promovendo in tal modo una Scienza la quale tenda veramente alla perfezione umana anziché retrocedere verso l’abbrutimento e la barbarie. Questo è uno dei compiti che ci spettano oggi: additare alla Scienza il vero suo dovere, quello di portare aiuto agli uomini e non offesa, di costruire col retto insegnamento una civiltà di fratellanza e non distruggere ogni vincolo sociale col seguitare a dedicarsi a studi i cui frutti portano alla distruzione.

***

Ed ora passiamo all’Arte. Che cosa intendiamo veramente per Arte?

Che cos’è un’artista? Se ci atteniamo al concetto che tutto ciò che esiste è la materializzazione d’un Pensiero Divino, per artista possiamo intendere colui che vede e ode un po’ più che l’uomo comune; ed è interessantissimo considerar l’arte sotto questo punto di vista speciale. Vi sono operai che generalmente non vengono chiamati artisti ma che, in verità, del loro mestiere hanno fatto un’arte; così è, per esempio, di alcuni bellissimi prodotti dell’industria umana, come quella orientale dei tessuti a mano e dell’impiego di tinte vegetali. I tessitori del Kashmir e, credo, anche quelli persiani, distinguono in una matassa di seta o di cotone, che noi giudicheremmo d’un unico colore, molte gradazioni di tinta - anche una dozzina - poiché il loro occhio è molto sviluppato nel percepire sfumature, alle quali il nostro è assolutamente insensibile. Costoro, per generazioni e generazioni, si sono dedicati alla tessitura a mano e l’esercizio costante di contrapporre colore a colore ha in essi sviluppato al massimo la facoltà di discernere le più leggere gradazioni di tinte, per cui sono in grado di combinarle in quel modo meraviglioso che dà ai loro lavori tanta armoniosa magnificenza di sfumature, le quali degradano da un colore all’altro, senza che l’occhio nostro riesca a distinguere dove finisca un colore e dove il successivo incominci; precisamente come nell’arcobaleno.

Altrettanto dicasi di alcune forme di musica orientale, come qualcuno di voi ben sa. In quella che si può chiamare la scala ordinaria indiana esistono ben ventitré o ventiquattro suoni diversi per costituire la nostra ottava. Ciò fa sì che l’orecchio europeo che oda questa musica per la prima volta ne rimanga male impressionato; gli europei in genere la trovano piatta appunto perché, fra due note successive nostre, essi ne hanno parecchie intermedie, che il musico indiano percepisce e distingue come veri e propri intervalli musicali.

Egli perciò apprezza e gusta quella musica meravigliosa, che agli europei non piace. Qui pure, come nel caso precedente, si tratta di un diverso grado di sviluppo nelle facoltà percettive. E questa maggiore intensità del senso della vista e dell’udito - frutto di una multisecolare educazione speciale - è una delle caratteristiche appunto - non dico certo la principale - dell’artista.

Ma questo grado di sviluppo della vista e dell’udito è ancora assai poca cosa, dopo tutto. Molto più si può ottenere. Ognuno di voi può sviluppare - o, se messo in trance mesmerica o ipnotica, dimostrar di possedere - una speciale facoltà visiva che gli permette di vedere a distanze alle quali nessun occhio umano può vedere, come pure attraverso sostanze che per l’occhio ordinario sono assolutamente opache.

Di ciò non è più lecito dubitare, poiché troppi esperimenti sono stati fatti e sono noti a chiunque abbia studiato l’argomento.

Moltissime opere, specialmente francesi, trattano di questi esperimenti, fatti principalmente con soggetti isterici, poiché la grande tensione nervosa facilita in qualche modo la possibilità di imprimere sul cervello quei risultati che, normalmente, non vi lascerebbero traccia.

Si tratta anche di uno stadio evolutivo che, specialmente nell’America occidentale, va a poco a poco affermandosi nel nuovo tipo di umanità che là sta sorgendo. Gran numero di queste persone vedono colori che l’uomo ordinario non vede, come ad esempio i colori dell’aura umana.

È bene, a proposito, ricordare che nulla ci autorizza a supporre che il cervello umano, quale è oggi, sia uno strumento perfetto; esso, infatti, ha in sé non solo vestigia di organi scomparsi, ma anche organi rudimentali, i quali sono una promessa per il futuro, come pure lo sono alcuni di quelli atrofizzati che potranno venir riattivati per altre funzioni future. Due parti del cervello umano sono, proprio oggi, oggetto di discussioni e controversie, non essendo la Scienza ancora riuscita a determinare l’uso: il corpo pituitario e la glandola pineale. Molte persone sanno, per esperienza propria, che questi due organi possono essere sviluppati, dischiudendo la percezione di nuovi mondi, noti ora soltanto ai soggetti in trance ipnotica; il che, oltre che interessantissimo, è molto istruttivo. V’è chi è propenso a considerare questi due corpi come semplici tracce superstiti di organi di qualche animale inferiore di una remota antichità; però anche oggi essi possono entrare in attività con funzioni del tutto speciali; e, se erroneamente stimolati, possono generale infermità gravissime. Su questo argomento la controversia è tale oggi, che io non intendo, per ora, soffermarmici né, per quanto io sappia che quello che affermo è vero, voglio che crediate ciecamente alle mie asserzioni; solo desidero farne cenno per esporvi un concetto che può interessar l’Arte.

Se discorrete con qualche artista, potete constatare che egli vede certi colori in modo diverso da voi, e ne vede dove voi non ne scorgete e altri ancora ne vede che voi neanche conoscete. Mortimer Mempes era uno di questi artisti appunto. Egli dipingeva colori simili a quelli dei fuochi artificiali, simili a luci colorate, tanto che nel vedere i quadri ch’egli esponeva si era indotti a credere che in essi vi fossero dei punti trasparenti dietro i quali egli celasse lampadine accese. Non v’ha dubbio ch’egli scorgeva quelli che chiamiamo colori astrali, colori, cioè, del piano emozionale; e una delle ragioni per cui molto spesso gli artisti sono dei temperamenti emozionali, molto sviluppati, è appunto il fatto ch’essi vengono più facilmente a contatto col mondo delle emozioni, con quel mondo che la Religione chiama “mondo intermedio”, che per lungo tempo molti studiosi degli stati più sottili della materia hanno chiamato “mondo astrale” e che la psicologia chiama “mondo dei sogni”.

Questo, io credo, può suggerirci un concetto fondamentale per l’Arte.

Se l’Arte è lo studio delle forme della Natura e se queste forme sono la manifestazione di un Pensiero Divino, artista non è forse colui che scorge questo divino pensiero un po’ più di quanto non lo scorga l’uomo comune? Alcuni grandi artisti hanno lasciato la testimonianza di un loro modo speciale di atterrare questo pensiero. Mozart, per esempio.

Cito lui, perché potete facilmente controllare la verità di quanto dico. In una delle sue memorie egli afferma che, trovandosi in uno stato di coscienza ch’egli non sapeva comprendere e definire, ma che certo non era il suo stato di coscienza normale, udiva un pezzo di musica, una sinfonia ad esempio, ma tutta simultaneamente, come un unico meraviglioso accordo; e che, tornando poi allo stato di coscienza normale, egli doveva elaborare e sviluppare in successione di note quanto in quell’attimo aveva udito. Questa testimonianza è interessantissima ed esatta. Osservando un quadro, ne vedete simultaneamente tutti i colori e tutte le forme, il che vi permette di atterrare il concetto che il pittore ha voluto esprimere; ma il pittore ha dovuto dipingere ad uno ad uno quei colori e quelle forme. Così Mozart udiva la sinfonia nella sua totalità, come un’unica impressione sintetica, indescrivibile, naturalmente, date le limitazioni del cervello fisico; e doveva poi, per riprodurla, trascriverne successivamente tutte le parti e tutte le note, precisamente come il pittore deve dipingere tutti i colori e tutte le forme del quadro, successivamente. Questo concetto può essere difficile da afferrarsi, ma è quanto mai suggestivo. E, allorché leggete la biografia di qualche artista, dovreste ricercarvi gli eventuali fatti di questa natura; non di rado vi troverete accenni a facoltà visive o uditive che l’uomo comune non possiede, a meno che non le abbia sviluppate per mezzo di certe pratiche di Yoga.

Simili facoltà dischiudono nuovi e vasti orizzonti per l’Arte futura; e oggi stesso possiamo vedere come alcuni artisti moderni si sforzino a creare nuove forme di arte, cercando di rappresentare nel limitato spazio cosiddetto tridimensionale cose che essi vedono, pensieri e sentimenti, che trascendono queste limitazioni.

Ad alcuni questi tentativi possono sembrar grotteschi. Dico “ad alcuni”, perché in questa stessa sala, forse, vi sono persone capaci di comprendere un quadro cubista più di quanto generalmente non lo si comprenda. Nessuno può affermare che questi tentativi non siano lo sforzo per rappresentare quanto l’artista effettivamente - per quanto forse imperfettamente ancora - vede per mezzo di sensi superiori, e non riesce ad esprimere in giusta proporzione e relazione con le immagini fisiche; che egli non tenti di rappresentare le proprie sensazioni e non soltanto gli oggetti che le determinano. Se davvero questi artisti mirano anche inconsciamente a tale intento, il loro lavoro è profondamente interessante. Se essi cercano di vedere e rappresentare l’impressione che su loro produce un dato oggetto, anziché limitarsi a dipingere l’oggetto stesso così come ognuno lo vede, ciò apre un campo pieno di meravigliose promesse. E, a tal proposito, voglio farvi osservare come nell’Arte orientale, in quella giapponese specialmente, vi sia una vivacità di azione, di movimento, veramente superiore a quella che si riscontra nei quadri di artisti occidentali. Nel dipingere, per esempio, una corsa di cavalli, l’artista giapponese non copia dal vero (neanche l’artista occidentale, a dire il vero, potrebbe agevolmente copiar dal vero una corsa di cavalli) né imita la fotografia, poiché in essa le gambe di un cavallo lanciato a corsa sono immobilizzate in certe posizioni che, si può dire, nessuno ha mai realmente vedute, giacché l’occhio non può registrare sul cervello ogni singola successiva posizione del moto veloce, ma tutte le compendia in una specie di curva.

Generalmente il pittore orientale non si serve di modelli, a meno che non si sia occidentalizzato. Anche nel ritratto; egli studia invece la persona, cerca di osservarla in ogni specie di atteggiamento e dipinge poi l’impressione che ne ha subita, senza più neanche avere dinanzi a sé la persona stessa. Egli non dipinge una posa, dipinge un quadro. Molto sovente, mi si dice, nel suo quadro può riscontrarsi un’imprecisione anatomica, ma sempre vi si scorge una meravigliosa rassomiglianza col soggetto.

Questo metodo mi pare molto interessante.

L’artista riproduce il volto quale egli lo vide durante molti e diversi atteggiamenti, dei quali vi offre una specie di sintesi che rappresenta la persona, la quale in tal modo appare viva innanzi a voi, anche se eventualmente non esattamente simile ad una qualsiasi delle sue espressioni, presa isolatamente. È un quadro, non già una fotografia.

Oggi anche alcuni grandi artisti occidentali incominciano a fare qualcosa di simile, io non so quale metodo seguono qui; in oriente il pittore dipinge di memoria, non copia dal soggetto in posa. A me pare che l’Arte in cui abbia parte l’immaginazione creativa, assurga ad una forma superiore a quella che consiste nel riprodurre esattamente un oggetto reale.

So benissimo che su ciò non tutti i pareri sono concordi e non intendo dogmatizzare né affermare che la mia opinione è giusta; mi limito a dichiarare che, secondo me, l’opera d’arte creata dall’immaginazione è superiore e non meno artistica di quella che riproduce esattamente gli oggetti, che la Natura ha creati in modo certamente più perfetto di quanto non sarebbe possibile ad alcun artista farlo.

Secondo me l’artista deve vedere e rappresentare qualcosa di più di quanto ognuno può vedere; deve renderci partecipi di quanto egli percepisce coi suoi sensi più sviluppati dei nostri; deve cioè, rivelarci più di quanto possiamo scorgere noi stessi, la Divinità che si sprigiona dai soggetti. Ed abbiamo degli esempi di ciò. Uno, che io cito sovente, è la meravigliosa Madonna di san Sisto, uno dei quadri più belli che esistano. Non si tratta qui di rassomiglianza col soggetto.

Esiste infatti un quadro che rappresenta Raffaello mentre dipinge questa

Madonna; da questo quadro ci si può render conto che la sua modella non era gran che in carattere, non era certo una madre dai lineamenti molto belli, come forse non lo era il bimbo. Ma che cosa ha fatto Raffaello? A me pare che egli abbia creato veramente una Maternità ideale e un’Infanzia ideale; non simile ad alcuna madre speciale o ad alcun speciale bambino, ma di una bellezza così meravigliosa che nel guardare quel quadro vi par di ammirare la Maternità, non una donna, l’Infanzia, non un bimbo. Questa, a parer mio, è la forma d’Arte più elevata fra tutte.

A che pro l’Arte ci ripresenta ciò che ognuno di noi può vedere?

L’Arte deve offrirci quanto può di quella Bellezza Eterna che si riflette nelle grandi e nobili emozioni umane; poiché in tal modo non soltanto godiamo emozionalmente nel contemplare le magnificenze del quadro ma - come nel caso di Raffaello - conserviamo nel nostro spirito il concetto stesso del quadro di modo che, allorché ci capita di scorgere nel mondo esterno una contadina col suo bimbo, siamo indotti a scoprire nella donna la Maternità Divina e nel bimbo la bellezza meravigliosa della Divina Infanzia. Il grande Ideale che l’Artista ci rivela - e che ha in sé qualcosa di più bello ancora, sotto un certo aspetto, di quanto riusciamo a vedere? - ci induce a idealizzare e ci introduce in un mondo ove il Potere Divino, che è in tutte le grandi emozioni e in tutti i pensieri nobili, si manifesta con una perfezione cui la maggior parte di noi non sa assurgere.

Io ardentemente spero di poter presto vedere tutte le Arti elevarsi ad una sfera più grande, più vasta, più idealistica. Io credo che la possibilità di pervenire alla vera Arte sia data da quella facoltà che si sta sviluppando nell’uomo e che in lui desterà quei sensi superiori i quali gli daranno accesso a mondi più grandi, più ricchi e più belli. Se soltanto poteste rendervi conto un istante di che cosa sia vivere durante il sonno in un mondo di bellezza, per poi dover ritornare a questa prigione di carne, comprendereste tutto il valore di quanto auguro che l’Arte abbia a diventare, grazie allo sviluppo negli artisti di quella facoltà di vedere ciò per cui l’uomo ordinario è cieco, ma che un giorno, allorché l’umanità sarà più progredita, tutti potranno vedere.

L’Artista, pertanto, è il Sacerdote della Bellezza, così come lo Scienziato è il Sacerdote della Verità. E nel constatare i loro progressi ci rendiamo conto di salire sempre più in alto, di avvicinarci sempre più al Divino; e nel nostro tentativo di edificare una civiltà più nobile ed una società migliore, possiamo considerare queste due grandi categorie di esseri umani come i precursori d’un mondo più glorioso. Vorrei soltanto implorarli di considerare a loro volta come sacra l’opera loro e di non degradarla fino alla bassezza dell’umanità inferiore, ma di elevarla sempre più verso la divinità della perfetta Verità e della perfetta Bellezza. Le loro ali, allora, ci trasporteranno sicure in regioni più elevate e noi pure progrediremo più rapidamente, e il mondo diventerà - stavo per dire “più perfetto” - un riflesso meno imperfetto della Sovrana Bellezza.

Tratto da una serie di conferenze - Londra, ottobre 1924.

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