
Introduzione al RAJA Yoga
di Massimo 
    Rodolfi
 

"Dall'irreale al reale, dal buio alla luce e dalla morte 
all'immortalità" - questa transizione, a cui aspira l'uomo, è resa 
possibile grazie al Raja Yoga, la più alta fra le scienze della 
coscienza.
Personalmente ritengo che il raja yoga rappresenti il 
vertice di quanto l'umanità abbia espresso nell'ambito della scienza 
della coscienza. In particolare gli Yogasutra di Patanjali 
hanno codificato, in modo assolutamente scientifico, tutto quanto 
occorre all'essere umano per compiere quella transizione che le Upanisad
 descrivono come ciò che ti fa passare 'dall'irreale al reale, dal 
buio alla luce e dalla morte all'immortalità'. 
Lo yoga in generale si occupa, attraverso le varie modalità con le quali
 si è espresso nel corso dei millenni, del problema della disarmonia e 
della disomogeneità della coscienza. La varietà delle sue pratiche è, in
 realtà, volta ad un unico obiettivo, quello di realizzare l'unità
 percettiva ed esperienziale dell'essere umano, cosa che è 
espressa anche nell'etimo stesso di yoga, che significa per 
l'appunto unione. In India, dove lo yoga è nato, è abbastanza chiaro che
 il raja yoga, rispetto agli altri tipi di yoga, è il più elevato, 
quello che include in sé anche gli effetti di tutte le altre possibili 
pratiche. D'altronde questa cosa è confermata dal suo stesso nome, visto
 che raja è 'il re', per cui raja yoga è lo yoga reale.
L'esposizione che Patanjali fa negli Yogasutra è estremamente 
scientifica e, mi si consenta, anche scarna, in quanto si limita ad 
esporre, in modo assolutamente sintetico, solo gli elementi essenziali 
che necessitano al compimento del percorso che il raja yoga descrive. Il
 primo dei quattro capitoli che compongono il libro, tratta del samadhi,
 ossia dello stato di unione della coscienza che la pratica yogica 
produce. Esso comincia con l'espressione del pranava, ossia la 
sacra sillaba Om, il Verbo attraverso il quale
 tutte le cose sono state create, la vibrazione che, secondo le 
scritture indiane, compendia tutte le frequenze di quanto esiste 
nell'universo. Poi il secondo sutra esprime subito quello che è il succo
 di tutto l'insegnamento del raja yoga: yoga citta vritti nirodha,
 ossia, tradotto liberamente, 'lo yoga corrisponde all'arresto delle 
modificazioni mentali'.
Senza ombra di dubbio, questa è una delle frasi che ha creato maggiore 
confusione in coloro che si sono avvicinati alla pratica della 
meditazione, non tanto per la frase in sé, quanto per l'interpretazione 
che, molto di frequente è stata fatta di queste parole. Per cui 
un'infinità di praticanti ed aspiranti 'meditatori' hanno fatto 
innumerevoli tentativi per raggiungere una sorta di vuoto pneumatico 
all'interno della scatola cranica, con l'intento di realizzare questa 
condizione di 'vuoto mentale'. Per fortuna è molto improbabile che 
qualcuno ci sia riuscito, altrimenti avrebbe corso il rischio di 
trasformarsi in un cetriolo. La condizione di cui ci parla il nostro 
Patanjali è casomai di 'arresto delle modificazioni mentali',
 che io non interpreto come arresto del pensiero, quanto 
piuttosto come arresto della capacità del pensiero di distorcere 
l'attività percettiva del nostro essere. Questa non è una sofisticata 
distinzione filosofica, ma una questione essenziale per comprendere come
 funziona la nostra coscienza.
Tutta l'attività umana si basa sulla percezione, sia interiore che 
esteriore, che l'uomo ha di sé e della vita. Senza addentrarci troppo 
nell'analisi strutturale e vibrazionale di come funzioniamo, penso che 
sia abbastanza condivisibile il fatto che l'attività emotiva e 
mentale condiziona grandemente la capacità percettiva, al punto
 di distorcerla significativamente. La storia individuale di ognuno di 
noi è costellata di episodi nei quali semplici 'lucciole' sono state 
prese per 'lanterne', con tutte le conseguenze del caso. Non è quindi 
casuale che nella tradizione indiana la vita sia descritta come Maya,
 illusione, visto il fatto che la percezione umana raggiunge la capacità
 di restituirci la realtà così com'è, solo conseguendo quello stato 
definito come samadhi, rimanendo altrimenti ancorata alle 
distorsioni prodotte dagli infiniti 'veli' costituiti dalla nostra 
produzione di emozioni e di pensieri.
Il percorso che ci propone Patanjali è per l'appunto quello che ci 
consente di superare quelle condizioni interne alla 
nostra coscienza in grado di distorcere la nostra visione del mondo. 
Questo per metterci nelle condizioni di sperimentare il samadhi,
 lo stato nel quale la nostra percezione della vita è assolutamente 
aderente allo stato di fatto delle cose. Incidentalmente poi, visto che 
questa realtà non perturbata, corrisponde a quel modo 
dell'essere che i testi sacri indiani definiscono come sat,
 chit, ananda, essenza, consapevolezza e 
beatitudine infinite, possiamo affermare che, seguendo l'insegnamento 
dello yoga degli otto passi, l'essere umano può superare la sofferenza, 
determinata dalle modalità ordinarie ed illusorie della sua coscienza.
Compiere questo percorso, in realtà significa vivere consapevolmente un 
lungo e difficile cammino di alchimia interiore, in 
grado di farci comprendere il senso di tutta l'esperienza umana. Nella 
fattispecie il raja yoga fornisce, a chi è in grado di poterlo 
desiderare, tutta la strumentazione adeguata per compiere quest'ultimo 
passo all'interno del regno umano, quello che conduce all'illuminazione.
 Yama, niyama, asana, pranayama, pratyahara, i primi cinque 
passi sul sentiero dello yoga reale, riguardano quello che io considero 
l'aspetto propedeutico rispetto a ciò che anche Patanjali ritiene essere
 il cuore di tutta la pratica. Regole e proibizioni, giusta posizione 
nella vita, controllo delle energie vitali e distacco dai sensi, questi 
sono i primi cinque passi, richiederebbero ciascuno un trattato a parte,
 ma in questa sede ci basti sapere che, attraverso la comprensione di 
questi mezzi, si acquisiscono la stabilità e la purezza necessarie
 per potere realizzare con profitto la parte più significativa del raja 
yoga, quella riguardante la concentrazione, la meditazione e l'estasi.
Dharana, dhyana e samadhi, altrimenti chiamati samyama,
 la disciplina, costituiscono la chiave di volta di tutto il sistema. 
Non sono riconducibili semplicemente a delle specifiche pratiche, che 
pure possono esistere, quanto piuttosto si riferiscono alla possibilità 
della mente umana di entrare in rapporto stabile e non disturbato con 
l'essenza della vita stessa. Attraverso la concentrazione, dharana,
 appuntata sulla forma, il praticante di raja yoga sviluppa la capacità 
di meditare, dhyana, ossia comincia a 
percepire la qualità che sta al di là della forma. Questa percezione 
'extra-sensoriale' inizia a far comprendere le vere strutture della vita
 e della coscienza, quelle che normalmente non sono percepite 
dall'attività sensoriale fisica. Così si sviluppano tutti quei siddhi,
 o poteri, di cui Patanjali ci parla nel terzo capitolo degli Yogasutra.
 
Quando questa capacità di 'essere' in meditazione nella vita diviene 
stabile, allora si sperimenta il samadhi, 
l'indifferenziato stato di non perturbazione, altrimenti chiamato 
estasi, illuminazione, nirvana, etc. 
Ci tengo a precisare, proprio per esperienza vissuta, che è abbastanza 
normale farsi l'idea che, per realizzare le mirabolanti cose che il raja
 yoga ci propone, sia quantomeno necessario un lungo soggiorno in una 
caverna senza riscaldamento centralizzato su di un elevato ed isolato 
picco himalayano. Bé, devo dire che la vita mi ha costretto a smentire 
questa ipotesi, al punto di farmi divenire un accanito sostenitore della
 teoria dell'illuminazione nel salotto di casa, che eventualmente, come 
recitava un'antica pubblicità televisiva, la 'potete prendere anche in 
tram'. La cosa veramente significativa, ai fini di questo tipo di 
conseguimento, è 'come' elabora i dati la nostra coscienza, ed in 
particolare che possibilità essa ha di essere più o meno aderente,
 dal punto di vista percettivo, alla realtà essenziale delle
 cose.
Se l'illusione è presente nella propria coscienza, questa lo sarà nel 
piccolo come nel grande, per cui ogni avvenimento del proprio esistere 
diviene assolutamente rilevante, ai fini della comprensione delle 
motivazioni del nostro agire. L'attenzione, dharana,
 (o concentrazione), agli impulsi che ci sospingono in azione, diviene 
la chiave di volta del sistema che Patanjali ci propone per comprendere 
la vita. Per capire il divario esistente tra l'idea che io ho di me 
stesso e ciò che veramente mi sospinge in azione devo per forza partire 
dall'attenzione al mio comportamento. Se voglio cambiare le componenti 
distruttive del mio essere devo prima divenirne consapevole,
 senza per forza dover pensare a supreme teologie. 
Questa forma di attenzione agli atteggiamenti del proprio comportamento 
non è per nulla diffusa ed è in realtà la cosa più difficile da 
realizzare su questo pianeta. Lo sviluppo di questa forma di 
concentrazione, è ciò che consente di sviluppare il secondo stadio della
 disciplina, la meditazione, che è quella condizione che permette di percepire
 la 'qualità' delle cose. Volendo fare un esempio concreto, 
magari io soffro nella mia vita perché nessuna donna mi capisce e mi dà 
l'amore che mi meriterei. Portando attenzione al mio comportamento, 
scopro invece che, al di là delle affermazioni verbali, di cui sono 
convinto, il mio modo di fare comprende in sé una certa volontà 
inconscia di non darsi completamente all'altra persona, allontanandola 
invece di attrarla. La percezione di questa 'qualità' interiore, mi dà 
la possibilità di cercare di agire in modo diverso, esercitando maggiore
 presenza invece che repulsione. 
Lo yoga poi conosce esattamente, a livello strutturale, come questo 
conflitto si esprime nell'anatomia e nella fisiologia occulta della 
coscienza, ma da un punto di vista pratico questa conoscenza viene più 
utile in un secondo momento.
Solo la pratica della comprensione di sé, con la realizzazione 
dell'innocuità del proprio comportamento, può condurre ogni 
essere umano al superamento della sofferenza, al compimento dello yoga e
 al conseguimento di quello stato di imperturbabilità chiamato, in 
questa occasione, 'samadhi'. Consentitemi di affermare, senza 
veramente nessun intento polemico, che questo conseguimento, che è il 
coronamento di tutta l'evoluzione umana, ed in particolare l'oggetto 
della disciplina di Patanjali, va ben al di là dell'esecuzione, come 
spesso si intende, di qualche complessa tecnica di concentrazione, ma ha
 a che fare con il cuore stesso della vita, che bisogna comprendere in 
tutta la sua interezza, prima di potere smettere di ferirlo. 
Questa cosa la si può fare solamente vivendo, con attenzione, 
rispetto ed amore, la propria esistenza, tenendo presente che 
non è l'unica nell'universo, ma è tale proprio perché espressione 
dell'insieme di tutte le altre vite. È di questa unione, con se stessi e
 con tutto ciò che esiste, che si occupa lo yoga, anche e soprattutto il
 raja yoga. Pensa te che ho sentito tante volte tanta gente dire che non
 ha tempo per meditare...

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