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La natura della nostra libertà
Di:Joy Mills
“Se ben comprendo lo spirito di questa
Società, essa è consacrata all’intrepido e coscienzioso studio della verità…
Siamo… semplici investigatori, seri nello scopo e di mente imparziale, che
studiano tutte le cose, che le verificano tutte e si attengono saldamente a ciò
che è buono… Noi cerchiamo, investighiamo, non respingiamo niente senza un buon
motivo, non accettiamo nessuna affermazione senza prima provarla; siamo
studenti, non insegnanti”. Tali erano le parole di Henry Steel Olcott,
Presidente-Fondatore della Società Teosofica, nel suo discorso di inaugurazione
del 17 novembre 1875. Per quanto questo discorso si sia rivelato controverso,
dato che ha suscitato rabbia e proteste sia da parte degli Spiritualisti che dei
Cristiani Fondamentalisti, la nota della libertà da tutti i dogmi, fedi e
dottrine codificate che propugna, ha caratterizzato
E come il
Colonnello Olcott chiamò
In una
lettera piuttosto notevole ai membri della Loggia londinese, scritta in un
momento in cui c’erano, nel gruppo, alcuni dissensi riguardanti l’elezione del
Presidente, il Mahatma K.H. sottolineò l’importanza di un “armonioso progresso” nella Loggia, aggiungendo: “E’ un fatto universalmente accettato che il
grande successo della Società Teosofica… sia dovuto interamente al suo
principio di tolleranza saggia e rispettosa delle opinioni e dei credi di
ciascuno. Nessuno, nemmeno il Presidente-Fondatore ha il diritto, direttamente
o indirettamente, di interferire con la libertà di pensiero del membro più
umile e men che meno di cercare di influenzarne l’opinione personale. E’ solo
in mancanza di questa generosa considerazione che perfino la più leggera ombra
di differenza arma i ricercatori di una stessa verità, altrimenti onesti e
sinceri, con la frusta dell’odio dell’odio contro i loro fratelli, egualmente
onesti e sinceri”. (Lettere dei
Mahatma ad A.P. Sinnett, edizione cronologica, Lettera nr. 120).
Possiamo
qui aggiungere un interessante commento fatto dallo stesso Mahatma in una
lettera precedente, nell’ordine cronologico, (vedi Lettera nr. 65). A proposito
del fatto che solo il suo grande fratello, il Mahatma Morya, desiderava
assisterlo nel lavoro di istruzione dei due inglesi, A.P. Sinnett e A.O. Hume,
il Mahatma K.H. si riferisce a un’affermazione fatta dal “nostro Fratello greco semi-europeo” sulla conseguenza che gli
inglesi potevano diventare “Zetetici”
e qui abbiamo un riferimento all’antica scuola greca di filosofia, famosa per
il suo scetticismo e dedita alla ricerca, una scuola che ebbe una specie di revival nell’Inghilterra del tardo XIX
secolo, nella quale era conosciuta come Società Zetetica. Tra i membri di tale
Società c’erano individui quali George Bernard Shaw e Sidney Webb, con i quali
Annie Besant, naturalmente, aveva grande familiarità.
Per una
vera indagine e ricerca la libertà di pensiero è un sine qua non. Ma, possiamo ben chiedere, cosa significa veramente
libertà di pensiero? E fino a che punto la nostra ricerca è davvero libera,
libera oggi da tutte le cose ingombranti del passato, dai vari condizionamenti
ai quali siamo stati soggetti? Forse nessuno ha avuto a che fare con la natura
della libertà più profondamente e acutamente che Jiddu Krishnamurti. Ne La prima e ultima libertà egli ha
scritto: “E’ capace la mente di essere
libera dal credere? Potete essere liberi da questo solo quando capirete la
natura intima delle cause che vi ci fanno aggrappare, non solo le cause conscie,
ma anche quelle inconsce che vi fanno credere”.
E in
numerose occasioni egli ha parlato della “mente
condizionata” quella mente formata dalle cose del passato, dalla paura e
dall’ansia, dai molti fattori che distorcono la vera visione. Possiamo noi,
egli chiederebbe, riconoscere lo stato della nostra mente? Possiamo capire che
può essere catturata dal desiderio, da sensazioni di tutti i generi, che può
lavorare in modo meccanico, così da essere refrattaria alle cose nuove? Come ha
scritto in Libertà dal conosciuto: “La libertà è uno stato mentale – non
libertà da qualcosa, ma un senso di
libertà, libertà di mettere in dubbio e interrogarsi su tutto e perciò così
intensa, attiva, vigorosa da affrancarsi da ogni forma di dipendenza,
asservimento, conformismo e accettazione. La libertà può verificarsi solo in
modo naturale, non desiderandola, volendola, sperandoci. E non la si troverà
nemmeno creando un’immagine di quello che pensiamo essa sia. Per coglierla la
mente deve imparare a guardare la vita, che è un movimento ampio, senza i
legacci del tempo, poiché la libertà sta oltre il campo del conosciuto”.
Come
possiamo noi allora guardare la vita, osservarla e, come direbbero i buddhisti,
essere consci di ogni suo movimento? E’ possibile liberare la mente dai suoi
modelli di pensiero abituale e vedere in modo nuovo? Queste sono domande alle
quali può rispondere solo l’individuo che desidera indagare, investigare
profondamente ogni cosa che entri nel suo campo di attenzione. E’ utile, di
tanto in tanto, esaminare quello che realmente sappiamo, cercando di analizzare
quali possano essere le basi di tale conoscenza.
Nel suo
ultimo libro, Radical Knowing,
Christian de Quincey, professore di studi sulla coscienza all’università John
F. Kennedy della California, ha formulato l’ipotesi che noi veniamo al mondo equipaggiati
di certe capacità innate. Egli le chiama i “quattro
doni della conoscenza” che poi definisce come: il primo “il dono del filosofo” o “chiaro pensiero” o la via della ragione
e della logica; il secondo “il dono dello
scienziato” o “osservazione e metodo”
o l’uso dei sensi; il terzo “il dono
dello sciamano” o “sensazione
incarnata” e, da ultimo, “il silenzio
sacro, dono del mistico” o intuizione ed esperienza trascendente. A mano a
mano che si considera ciascuno di questi “doni
della conoscenza” è possibile scoprire quanto quello che noi crediamo e che
sappiamo veramente può essere influenzato dalla ragione, dall’abile uso dei
sensi in stato di osservazione, dalle nostre sensazioni e percezioni intuitive.
Ciascuna via verso la conoscenza, ciascun sentiero che ci abbia portati alla
convinzione che “questo è così” è
legittimo ma la sua validità ultima sta nel come la nostra conoscenza ha
influito sulle nostre vite, donandoci una maggior comprensione, una prospettiva
più ampia, un più profondo apprezzamento per i modi di vedere altrui.
La vera
libertà, potremmo suggerire, richiede un desiderio di esaminare la mente in
tutte le sue modalità di conoscenza. Noi viviamo, per la maggior parte, in modo
indiretto, in maniera reattiva e troppo spesso piuttosto inconscia. Le nostre
reazioni usuali sono tante volte dovute all’abitudine e noi rispondiamo senza
riflettere, abituati a vecchi modelli di azione. Quando ci viene rivolta una
domanda possiamo rispondere citando qualche libro che abbiamo letto, qualche
affermazione che abbiamo sentito e accettato per vera, senza troppo pensarci,
basando la nostra accettazione solo sulla considerazione per la persona che
l’ha fatta. C’è un certo piacere, che è anche libertà, nel considerare le cose
da un punto di vista diverso da quello abituale.
E’ stato
detto che tendiamo a vivere o assorti nel passato o in un’anticipazione del
futuro. L’impresa è quella di liberare la coscienza dai fardelli del passato e
del futuro; essere liberi significa vivere interamente nel presente. Qualcuno
ha suggerito che “nemmeno Dio può
liberare l’uomo dal suo passato finché egli stesso non desideri farlo”. Per
liberare il pensiero potrebbe essere necessario esaminare da vicino quanto
quello che riteniamo di sapere è basato sui nostri condizionamenti passati,
tanto quanto sul desiderio che le cose siano nel modo in cui crediamo debbano
essere! La storia biblica del paralitico che fu portato da Gesù per essere
guarito illustra, allegoricamente, il problema che molti di noi affrontano
nella ricerca della libertà di pensiero. Rivolgendosi all’uomo il Maestro
ordinò: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e
tornatene a casa”. E così il paralitico fu guarito, avendo egli obbedito ai
tre ordini: primo quello di “alzarsi”
corrispondente al ridestarsi e rimettersi in piedi, che simboleggia la libertà
di muoversi; secondo quello di prendere il suo lettuccio e non di separarsene.
Questo, potremmo suggerire, indica la necessità di osservare le nostre
circostanze presenti, esaminando le condizioni che ci hanno portato all’odierno
stato di malattia o sottomissione, condizione che abbiamo creato noi e che
dobbiamo guardare in faccia onestamente e senza paura. E per ultimo ha obbedito
all’ordine di tornarsene a casa, che significa riconoscere che se noi per
essere liberi non ci osserviamo interiormente, continueremo ad avere dei
limiti, sia fisici che mentali. Quale che sia il genere di limite – fisico,
mentale o di qualsiasi altra specie – andare nella nostra “casa” spesso significa solo cambiare attitudine, vedere le cose
come sono realmente, riconoscendo la nostra tendenza a pensare secondo linee
abituali, senza esaminare le nostre convinzioni e certezze.
La vera
libertà di pensiero, che significa una mente sgombra da interessi egoistici,
dalle cristallizzazioni del passato, dalla cieca accettazione di verità altrui,
implica la volontà di intraprendere il rigoroso compito di capire se stessi in
modo da comprendere coscientemente quello che sappiamo e come siamo arrivati a
saperlo, quale che sia la cosa che abbiamo accettato per vera. La verità è una
condizione della mente che può verificarsi solo quando essa è davvero libera da
ogni impedimento psicologico. Tali impedimenti sono stati ben definiti nella
filosofia dello yoga. Di questi ostacoli, usualmente definiti klesa, il dottor I.K. Taimni ha dato
dettagliata spiegazione nel suo chiaro libro,
Queste
cinque sofferenze psicologiche non sono solo la causa del dolore e
dell’afflizione, ma impediscono anche la chiara visione delle cose come sono,
condizione necessaria per la libertà di pensiero. Ed è solo riconoscendo e
successivamente affrontando la loro presenza a livello mentale ed emozionale
che possiamo cominciare a liberare la mente da tali ingombri. Una mente così
liberata è ampia, una mente in cui c’è freschezza di percezione, apertura alle
nuove idee e un piacere creativo nell’esplorare tutte le possibilità. Un altro
ulteriore pensiero sorge se si prosegue nella lettura di quel notevole discorso
inaugurale che ha pronunciato il Colonnello Olcott. Radicata in esso sta la
convinzione del Presidente-Fondatore di questa Società che proprio il nome
dell’organizzazione abbia in sé la chiave per un esame di qualsiasi idea possa
essere sostenuta dai suoi membri. Da nessuna parte in tale prolusione e nemmeno
negli scritti e nei discorsi dei Presidenti successivi, alla parola “Teosofia” è mai stata data una
definizione ufficiale alla quale tutti i membri debbano aderire. Eppure
Circa
quattordici anni dopo aver pronunciato il suo discorso inaugurale, Olcott
pubblicò un articolo in The Theosophist,
il giornale fondato dalla sua collega H.P. Blavatsky e che, grazie alla sua
direzione, divenne la rivista ufficiale del Presidente. Quell’articolo,
intitolato “Teosofia applicata”
apparve nel giugno 1889 e fu più tardi ristampato come Adyar-Pamphlet nr. 145.
Ribadendo di nuovo il principio fondamentale della libertà di pensiero della
Società Olcott scrisse: “Quello che
Ma Olcott,
l’idealista pratico, il visionario che pure metteva in pratica ciò che diceva,
non era soddisfatto di quella che definiva “la
parte intellettuale o filosofica della Teosofia… il frutto dell’influenza della
Società Teosofica in una sola direzione”. E così egli aggiunse, nello
scrivere riguardo alla “Teosofia
applicata”: “Coloro che vengono
influenzati dallo spirito teosofico ne sono condizionati tanto eticamente
quanto filosoficamente. Le stesse cause che producono una certa tendenza del pensiero producono anche una disposizione ad agire in un certo modo”.
Quando la mente è davvero libera, quando investiga, indaga, esamina, esplora le grandi idee ricomprese dalla parola “Teosofia”, quando tutte le vie alla conoscenza confluiscono in quella luminosa realizzazione che per ciascuno di noi è la verità senza nessun “me” o “mio” a limitarla o a farne un dogma nel quale gli altri possano inciampare, allora la nostra vita parlerà di quella verità in ogni momento di ogni giorno. Quando la mente non è più condizionata da simpatie ed antipatie, dall’egoismo e dalla preoccupazione per se stessa, la percezione è chiara e la verità sorge naturalmente, non come una verità o la verità, ma come l’essenza della verità in tutta la sua bellezza e meraviglia.
Tratto da The Theosophist, marzo 2007, traduzione di Patrizia Moschin Calvi.