LA PACE CAMBIERA’ IL NOSTRO CAMMINO?
(Riflessione intorno alla Pace)
“E’
soltanto nelle misteriose equazioni
dell’amore
che si può trovare ogni ragione logica”
(John Nash, citazione dal film
“A beautiful
mind”).
Desidero
innanzi tutto ringraziare tutti voi per la presenza ed in particolare il vostro
Segretario Generale Danielle Audoin e
E’ bello
essere insieme a voi in questo stupendo teatro; ciò significa che – insieme -
cercheremo di approfondire un tema caro al ricercatore spirituale e di tenere
accesa, in una qualche misura, quella “fiamma” della conoscenza e del
servizio senza la quale la vita corre il rischio di perdere gran parte del suo
significato.
Il caro fratello Phan-Chon-Ton, eccellente relatore ufficiale all’89° Congresso Nazionale della Società Teosofica Italiana che si è recentemente concluso ad Aosta sul tema “Teosofia e vita quotidiana”, a proposito del titolo di questa relazione mi ha detto: “Antonio, ma cos’hai voluto dire con questo titolo? Mica si capisce tanto bene!” Sul momento mi sono un po’ preoccupato, ma spero che, percorrendo insieme le riflessioni che esporrò, almeno la relazione – se non il titolo - risulterà del tutto chiara.
Per una persona che non crede nella retorica nessuna risposta è scontata ed è proprio per questo che vi propongo che “attorno” alla Pace ciascuno di noi risponda – affermativamente o meno - alla domanda: “La pace cambierà davvero il mio cammino?”
I recenti accadimenti internazionali hanno riportato l’attenzione dell’occidente e degli uomini di buona volontà sul tema della pace, del suo significato e della sua importanza; una riflessione ad un tempo concreta e politica, ma anche etica e filosofica.
Per ben comprendere il significato della pace è necessario innanzi tutto prescindere da alcune associazioni mentali che spesso accompagnano questa parola come una sorta di “reazione” alla paura ed all’incertezza che accompagnano una realtà spesso fortemente connotata da valenze di odio e di violenza. Dovremmo fare un po’ quello che fanno i bambini brasiliani quando ripetono, con la leggerezza che soltanto l’innocenza può dare, la filastrocca che dice:
“A verdade prova que o tempo è o senior
dos dois destinos, dos dois destinos
Ja que pra ser homem ten que ter
a grandeza de um menino, de um menino
No coracao de quem faz a guerra
nascera uma flor amarela
Como um girassol
Como um girassol
(La verità dimostra che il tempo è il signore/dei due destini, dei due destini/Poiché per essere uomini bisogna avere la grandezza dei bambini, dei bambini/Anche nel cuore di chi fa la guerra/nascerà un fiore giallo/Come un girasole/Come un girasole/Come un girasole giallo giallo.)
La parola pace deriva dal latino pax, che ha come radice pak/pag, che si ritrova in pangere = fissare ed in pactum = patto.
Potremmo forse affermare che pangere può avere relazione con il fissare la consapevolezza della coscienza nell’osservazione e che pactum può riconnettersi anche ad un patto con se stessi per scegliere la via spirituale nonché, ad un livello più profondo di significato, all’unità fra l’azione di osservare e l’oggetto che è destinatario dell’azione.
Fra i tanti significati che il vocabolario ci offre per la parola “pace”, quello che più interessa la nostra ricerca è forse correlato a quello di “stato di tranquillità e serenità spirituali, non turbate da timori, affanni, passioni”.
Cicerone affermava che “Pax est tranquilla libertas” (1).
Per Hobbes prima e Kant poi la pace fra gli uomini non è uno stato di natura e pertanto esso deve essere istituito.
Più vicino
alla concezione spirituale è il concetto metafisico di pace in Witehead, che la
intende come “l’armonia delle armonie”, in grado di placare la
turbolenza distruttiva e di completare la civiltà (2).
Nella tradizione filosofica dunque la Pace ha sovente il significato di cessazione dei conflitti, esteriori ed interiori.
E’ verso una Città della Pace che conduce una delle navigazioni presenti nel Libro dei Morti dell’Antico Egitto. Questa grande Pace è presente nella cultura cinese ed è la sakinah araba e la shekina ebraica, nel significato di “presenza reale del dio”.
E’ anche
Nella tradizione greco-latina la pace è spesso associata poeticamente all’arcobaleno, simbolo di quiete dopo la tempesta, di unione fra il cielo e la terra e fra la realtà materiale e quella spirituale. La personificazione dell’arcobaleno era rappresentata da Iride, la celeste messaggera degli dei, figlia di Taumante e della ninfa oceanina Elettra, nonché sorella delle Arpie. Secondo la mitologia greca era particolarmente addetta al servizio di Giunone, regina degli Dei, come consigliera e portatrice di saggezza. Ma il suo compito più delicato (e tutto da intuire) era quello di portare all’Olimpo l’acqua del fiume infernale Stige, perché gli Dei potevano fare i loro giuramenti solo versando quell’acqua (4).
Anche nel mondo dell’arte e della scienza esistono dei riferimenti preziosi per favorire una profonda riflessione sulla Pace.
In campo artistico ne è un prezioso esempio il ciclo pittorico all’interno del Battistero del Duomo di Padova, rappresentato dagli affreschi di Giusto de’ Menabuoi (secolo XIV). In esso vi è una parte dedicata al momento in cui il Cristo è raccolto in preghiera, nell’orto di Getsemani, sul Monte degli Ulivi, a Gerusalemme; gli Apostoli sono lì a pochi passi, esausti ed ormai in preda al sonno. Gesù, che sta rimettendo la propria volontà nelle mani del Padre, li aveva pur invitati a restare desti ed a pregare, ma per ben tre volte essi erano stati sopraffatti dal sonno (5).
In questa parte dell’opera pittorica del ciclo di Giusto de’ Menabuoi
la pace è direttamente correlata al volto del Cristo, vero e proprio “ponte”
fra il cielo e la terra. Pace dunque non è tanto inazione o abbandono, quanto
piuttosto meditazione in atto, dimensionamento globale, focalizzazione
nell’essere della dimensione cosmica, presente nel singolo essere quale “rappresentante” del tutto.
Lo stupendo affresco di Giusto de’ Menabuoi, con Gesù Cristo che prega
nell’orto di Getsemani, può essere simbolicamente collegato, in una sorta di yantra
che coinvolge Padova, Gerusalemme ed Adyar, con il medaglione dello scultore
indiano K.Venkatappa che illustra ad Adyar, nel salone d’ingresso della Società
Teosofica, la “rinuncia
del principe Siddharta”.
Questo principe della casa di Kapilavastu, ha potuto acquisire una
completa percezione del “Sé reale” soltanto quando ha rinunciato ai legami dei sensi e della personalità.
Solo così ha imparato a non separare il “Sé
reale” dagli altri Sé; a imparare per
esperienza l’intrinseca irrealtà (illusione) di tutti fenomeni, conseguendo
così un completo distacco da tutto ciò che è evanescente e finito, e vivere
nell’immortale sempiterno, che è pace.
La rinuncia agli illusori valori del passato e del futuro ci permette
di vivere la realtà di questi due mantra delle Ishavasyupanishad: “Colui che vede sempre ogni
vivente creatura in Dio e Dio in tutte le crature, non sente antipatia o
disgusto verso alcuno” e “Colui nella cui coscienza tutti gli esseri
viventi sono stati trasformati in differenti espressioni di Dio, non soffrirà
delusioni, non proverà alcun dolore, alcuna afflizione”.
Dopo questa sorta di ricognizione che ci ha permesso di constatare quanto vasta e articolata sia la
riflessione umana sulla Pace, dovremmo anche investigare se vi sia un rapporto
fra la pace e la struttura della materia, nelle sue articolazioni e dimensioni
spazio temporali. Dovremmo cioè cercare di rispondere alla domanda: “C’è uno stato di “pace” nella
materia?”
Anche questa riflessione ci aiuta a comprendere
quanto sia fallace l’equazione pace = quiete, nella sua accezione di inazione.
In realtà la pace non ha a che fare con la staticità, quanto piuttosto
con l’armonia.
Diventa per questo interessante riconsiderare la
teoria della relatività ristretta di Albert Einstein, con il suo mettere in
relazione di equivalenza la massa con l’energia, quasi ad aprire la strada –in
uno spazio-tempo inestricabilmente interconnesso - ad una stretta correlazione
fra spirito e materia (6).
Dopo Einstein, negli Anni Ottanta del secolo scorso, di grande
interesse per il ricercatore spirituale si è pure dimostrata la teoria delle stringhe,
in grado di reinserire il concetto di “vibrazione” nella comprensione della realtà, legandolo a masse e cariche associate
a forze (7).
Nella vastissima letteratura teosofica vi è la ripresa di un concetto
orientale che può ben spiegare il “processo” rappresentato dalla pace; si tratta del concetto di Antahkarana, che viene così definito nel “Glossario
Teosofico” da H.P. Blavatsky: “E’ quel sentiero o ponte fra il manas superiore
e quello inferiore, fra l’ego divino e l’anima personale dell’uomo. Esso serve
come mezzo di comunicazione fra i due e trasporta dall’ego inferiore a quello
superiore tutte le impressioni personali ed i pensieri dell’uomo che possono
essere, per la loro natura, assimilati e accumulati nell’Entità immortale e in
questo modo divenire immortali con essa; questi sono gli unici elementi della
Personalità evanescente che sopravvivono alla morte ed al tempo. Ne deriva
perciò che soltanto quello che è nobile, spirituale e divino nell’uomo può
testimoniare per l’eternità che l’uomo ha vissuto” (8).
Il concetto di Antahkarana apre le porte alla necessità che la coscienza umana vada a
caratterizzarsi sempre più in termini di consapevolezza spirituale. Scrive in
proposito H.P. Blavatsky ne “
Ma per far sì che la consapevolezza si esprima appieno occorre superare
il proprio egoismo. Afferma Jiddu Krishnamurti: “L’egoismo
divide, l’egoismo è la più grande corruzione (la parola corruzione significa
spezzare e dividere) e dove c’è egoismo c’è frammentarietà - il tuo interesse
opposto al mio interesse, il mio desiderio opposto al tuo desiderio, la mia
ansia di salire la scala del successo opposta alla tua…….Quando iniziate ad
essere spassionatamente consapevoli del vostro egoismo, a sopportarlo, studiandolo,
imparando, osservandone tutte le complicazioni, allora potete scoprire quando è
in atto e quanto sia completamente inutile”
(10).
Per comprendere
La mente focalizza le immagini, con il loro contorno di emozioni,
attraverso un processo associativo: vedo un oggetto, lo considero e lo valuto e
da qui – attraverso il desiderio - parte un processo di associazione che si
muove nella dimensione spazio temporale attraverso una logica dominata
dall’obiettivo e che mira in ultima analisi, al “possesso” di ciò che ha innescato il processo cognitivo.
Se osserviamo con attenzione possiamo notare che il processo in
questione ha a che fare sia con gli oggetti e gli aspetti materiali sia con
l’accumulazione della conoscenza sia ancora con gli obiettivi “spirituali”.
Mi accorgo che il mio essere non è in pace e metto in atto una pratica,
un movimento che me la faccia raggiungere. Considero dunque l’azione non nel “qui ed ora”, ma nella sua successione dinamica, attraverso una valutazione che
deriva non dall’atto di percepire, ma dall’esperienza, in molti casi così come
ci viene proposta, descritta e interpretata da soggetti terzi che rappresentano
a vario titolo “un’autorità”, culturale o spirituale che sia.
In questo movimento della
mente inferiore la ricerca della pace, delle sue definizioni e pratiche, ci
allontana in realtà dal nocciolo della questione, che consiste nel superamento
del dualismo divergente fra osservatore e cosa osservata.
La pace dunque ha poco a che fare con le visioni manichee e dualistiche
del mondo ed anche con quelle che si basano su una autorità esterna. Nella
separatività connessa ad una visione del mondo in movimento verso un qualche
obiettivo sta l’illusione discriminante che alimenta un mondo fatuo, fatto di
schemi, di dottrine, di pratiche caricate di significati esterni. E’ questa la
mente in atto, nella sua accezione di “distruttrice
del reale”. E questa catena illusoria è quella
che ha caratterizzato e caratterizza la vita dell’essere umano, alimentando
odi, violenze, terrori e terrorismi, interni o esterni che siano all’essere
umano.
Nel secolo scorso forse nessuno come Jiddu Krishnamurti ha saputo
descrivere questo processo e forse nessuno ha saputo nel contempo ridare una
reale speranza all’essere umano.
E’ una speranza che si basa, paradossalmente, sull’estrema radicalità
del pensiero krishnamurtiano, che attribuisce all’osservazione non condizionata
la capacità di liberare le coscienze nel qui ed ora.
Il processo di osservazione diventa dunque vera e propria meditazione,
una meditazione non basata su qualcosa di “esterno” (un mantram, una tecnica, una concezione del mondo), ma sul semplice atto di
osservare.
La conseguenza è immediata ed evidente: il focus non è più
sull’accumulazione delle conoscenze, ma sulla liberazione (kenosis)
dal noto, cioè sulla libertà dal conosciuto.
Pace in questo senso non è
quindi un risultato o uno stato dell’essere da conservare o alimentare. Pace è
l’osservazione stessa, è meditazione in atto.
In tutto questo diventa fondamentale partire da quello che siamo;
afferma J.Krishnamurti: “Dunque
dobbiamo partire da ciò che ci sta vicino, ossia dobbiamo occuparci della
nostra vita quotidiana, dei nostri pensieri, sentimenti e azioni di tutti
giorni, che si manifestano nel modo in cui ci guadagniamo da vivere e nel
rapporto che abbiamo con le idee e con le credenze” (11).
L’insieme del processo dell’osservazione converge nel qui ed ora ed
anche questo rappresenta qualcosa di “liberante” e che è in grado di rendere responsabile l’essere umano. Nel qui ed
ora non sono infatti possibili autocompiangimenti o spostamenti temporali del
processo di retta comprensione.
Nel qui ed ora l’eterno si
sposa col presente, è anzi il presente. E la vita intera, nella sua unità, è
nell’atto stesso di osservare.
Ne emerge un concetto totalizzante di sacralità; afferma ancora J.
Krishnamurti: “Sapete
che cos’è la religione? Non è nelle preghiere salmodiate, né nel compimento di
un rito, né nell’adorazione di dei di latta o di immagini di pietra, non è nei
templi e nelle chiese né nella lettura della Bibbia o della Bhagavadgita, non
consiste nel ripetere un nome sacro o nel seguire qualche altra superstizione
inventata dagli uomini. Nulla di tutto ciò è religione.
La religione è il sentimento di bontà, quell’amore che è simile ad un fiume, vivo, eternamente in movimento. In quello stato scoprirete che arriva un momento in cui ogni ricerca cessa del tutto; e la fine della ricerca è l’inizio di qualcosa di totalmente differente: la ricerca di Dio, della verità, il sentirsi completamente buoni - non il coltivare la bontà e l’umiltà, ma il cercare qualcosa al di là delle invenzioni e dei trucchi della mente, il che significa sentire quel qualcosa, vivere in esso, esserlo – quella è la vera religione. Ma ciò è possibile solo se lasciate la pozza che vi siete scavati e vi gettate nel fiume della vita. Allora la vita vi stupirà prendendosi cura di voi, poiché voi non ve ne prenderete più cura. La vita vi porterà dove vorrà perché ne siete parte” (12).
Comprendere il processo della percezione
per arrivare al concetto di Fratellanza Universale senza distinzioni
La pace ha certamente a che fare con un approccio di tipo spirituale
alla vita. Se osserviamo l’incedere degli eventi e lo sviluppo delle normali
dinamiche del vivere rileviamo che la manifestazione, quanto più si avvicina ai
livelli densi della materia e cioè al livello mentale inferiore, astrale e
fisico, tanto più appare caratterizzata da contrasti, opposizioni e lotte.
In realtà il nodo fondamentale è che spesso l’uomo giudica e vede gli
accadimenti che si svolgono su questi piani con gli “occhi” e le conoscenze limitate che appartengono a questo parziale livello di
coscienza.
Si tratta dunque di un imperfetto livello di
comprensione e di visione. La realtà più propriamente materiale andrebbe invece
considerata alla luce anche degli altri piani che caratterizzano la vita, a
partire da quello dell’intuizione e della mente astratta.
Questa considerazione fa
intravedere come uno dei limiti dell’approccio alla conoscenza dell’uomo sia
rappresentato dal suo valutare le cose partendo dai piani più densi della
materia, rimanendo quindi fortemente condizionato dagli stessi.
Che cosa accadrebbe invece se l’essere umano considerasse il piano
materiale come un “effetto” di quello spirituale, con la conseguente necessità di “aprire”
il livello della materia alla superiore comprensione propria del mondo degli
archetipi? Probabilmente in questo caso la nostra comprensione del mondo
cambierebbe radicalmente; ma perché ciò accada sono necessarie almeno tre
condizioni:
1.
che la vita
venga considerata nella sua unità e che quindi il piano spirituale e quello
materiale non vengano visti come due realtà separate e contrapposte, ma come un
unicum; con
la conseguenza che nelle aggregazioni della vita anche la realtà materiale più
densa non cessa di contenere una parte spirituale;
2.
che l’approccio
sia alla conoscenza che alla relazione avvenga non condizionato da dogmi e
ideologie, con la conseguenza che questi due processi fondamentali
dell’esistenza possono vedere in azione un uomo totalmente aperto, tollerante,
pronto al nuovo, capace di “usare” le strutture mentali e non di esserne usato;
3.
che la visione
della vita tenga in considerazione simultaneamente l’intera struttura
dell’uomo, tradizionalmente suddivisa in 7 piani nell’approccio teosofico, con
la conseguenza di “nobilitare” i piani più vicini alla nostra normale percezione nella misura in cui
risultano aperti all’influenza di una dimensione spirituale non più separata e
vista come esterna, ma perfettamente in atto, nel qui ed ora.
In quest’ottica la dimensione del tempo muta radicalmente e la vita
appare sempre più un continuum e non come un movimento segmentato.
E’ tempo ora di chiedersi se vi sia un rapporto fra
E’ proprio nella Fratellanza Universale
senza distinzioni che
In quest’ottica il diverso da
noi, ben lungi da costituire una minaccia, finisce per essere elemento di
ricchezza, testimoniando l’energia creatrice della vita una, capace di
esprimersi nelle infinite forme.
Poiché
Afferma
infatti H.P.B.: “Lo Spirito (o
Coscienza) e
Nella
quotidianità il karma, la legge di azione e reazione che mantiene in equilibrio
l’universo, esprime la sua compiutezza. Non va mai dimenticato che nel
quotidiano abbiamo sia la possibilità di agire nell’ottica del Servizio sia di
trasformare
Ciò
dipende in parte dalla nostra volontà e dal nostro atteggiamento mentale;
afferma un proverbio cinese: “Se guardi il cielo dal fondo di un pozzo è un
buco, se lo guardi dall’alto di un monte, oltre il cielo c’è ancora altro
cielo”.
Ebbe ad
affermare un caro amico teosofo: “Gli uomini di buona volontà non pretendono
di essere amati: essi amano. Non pretendono che gli altri si comportino bene:
essi non fanno agli altri ciò che non vorrebbero fosse fatto a se stessi. Non
parlano soltanto: essi agiscono”.
Riecheggiano
le parole della Bhagavadgita: "Compi dunque l’azione dovuta,
perché l’agire è migliore dell’inattività; senza l’azione non sarebbe possibile
far sopravvivere il tuo corpo. Al di fuori dell’azione basata sul sacrificio
[agire non vincolante] il mondo è vincolato all’azione; compi dunque l’azione
in funzione sacrificale, libero da attaccamento.”
Affinché
l’azione acquisti un valore sacrificale e diventi dunque “sacra” ed in
grado di esprimere compiutamente la pace è necessario considerare non soltanto
le vie della mente, ma anche quelle del cuore, nell’accezione poetica che ne
dava il grande mistico e poeta sufi Rumi: “Il cuore è un giardino segreto in
cui vanno a nascondersi gli alberi: si manifesta in cento forme, ma ne ha una
sola. E’ un oceano immenso, senza fine, in cui vanno ad infrangersi le onde, le
onde di ogni anima”.
La magia del cuore si manifesta solo quando si hanno il coraggio e la determinazione a togliere potere al proprio ego e alla propria mente. Come fare? La consapevolezza della nostra buddità da’ due componenti che dobbiamo imparare a unificare: dilatare il momento presente fino a farlo coincidere con l’Eternità e applicare una pratica compassione verso tutti gli esseri viventi. E’ utile ricordarsi, al di là delle apparenze, che siamo tutti sulla stessa barca e soprattutto che siamo tutti infinite sfaccettature della stessa anima universale. Il ricordarselo o meno crea la differenza fra l’ordinaria misera e limitata condizione umana e le vette dell’illuminazione interiore.
(Intervento in occasione della Convenzione Nazionale della Sezione Francese della Società Teosofica, Parigi, 22 giugno 2003).
NOTE
1.
In Filippide 2,44,113;
2.
Adventures of Ideas,
XX, citato da Nicola Abbagnano in Dizionario di Filosofia, UTET Torino
1971 pag.646;
3.
J.Chevalier e A. Gheerbrant, Dizionario
dei Simboli, Vol. II BUR Milano 1986, pag. 178;
4.
Bernardino del Boca,
5.
Matteo 26,36-46;
6.
La teoria della relatività ristretta trae
origine da una serie di articoli pubblicati da Einstein nel 1905. Alla
relatività ristretta fece poi seguito la relatività generale. Una conseguenza
assai importante della relatività è il
rapporto fra massa ed energia. Del postulato di Einstein secondo cui la
velocità della luce è identica per tutti gli osservatori discende che niente si
muove più rapido della luce. Quando si usa energia per accelerare un corpo, sia
questo una particella o un’astronave, la massa del corpo aumenta, rendendo più
difficile accelerarlo ancora. Di conseguenza è impossibile accelerare una
particella fino alla velocità della luce, perché occorrerebbe una quantità
infinita di energia (cfr. Stephen Hawking, L’universo in un guscio di noce,
Mondadori, Milano, 2001 pag.16);
7.
Gli oggetti fondamentali della teoria delle
stringhe non sono particelle che occupano un singolo punto dello spazio, ma
stringhe unidimensionali che possono avere estremità o chiudersi ad anello (loop).
Come le corde di un violino queste stringhe “vibrano” o “risuonano”.
Ma mentre le diverse risonanze delle corde di un violino danno origine a
diverse note musicali, le oscillazioni di una stringa danno origine a masse e
cariche differenti, che sono interpretate come particelle fondamentali. In
parole povere, più corta è la lunghezza d’onda dell’oscillazione sulla stringa,
più grande è la massa della particella (cfr idem ibidem pag.56);
8.
H.P. Blavatsky, Glossario Teosofico,
Edizioni Sirio, Trieste;
9.
Citazione dall’articolo di Radha Burnier “L’Arte
di Vivere”, pubblicato su “The Teosophist” nel novembre 2002;
10.
J. Krishnamurti, Gli ultimi discorsi -
Saanen 1985, Ubaldini Editore, Roma pag. 70-72;
11.
J.Krishnamurti, La ricerca della
felicità, BUR, Milano 1993, pag 6;
12. idem ibidem pag. 166-167;
13.
H.P. Blavatsky,
14.
Bernardino del Boca, rivista L’ Età
dell’Acquario, Bresci Editore, 1973.