LA PACE CAMBIERA’ IL NOSTRO CAMMINO?

(Riflessione intorno alla Pace)

 di Antonio Girardi

                               E’ soltanto nelle misteriose equazioni

                                            dell’amore

 che si può trovare ogni ragione logica”

         (John Nash, citazione dal film

                    “A beautiful mind”).

 

Saluto e premessa

Desidero innanzi tutto ringraziare tutti voi per la presenza ed in particolare il vostro Segretario Generale Danielle Audoin e la Presidente della Federazione Teosofica Europea Tran-Thi-Kim Dieu, per l’invito – che mi onora - a tenere questa relazione in occasione della Convenzione nazionale della Sezione Francese della Società Teosofica.

E’ bello essere insieme a voi in questo stupendo teatro; ciò significa che – insieme - cercheremo di approfondire un tema caro al ricercatore spirituale e di tenere accesa, in una qualche misura, quella “fiamma” della conoscenza e del servizio senza la quale la vita corre il rischio di perdere gran parte del suo significato.

Il caro fratello Phan-Chon-Ton, eccellente relatore ufficiale all’89° Congresso Nazionale della Società Teosofica Italiana che si è recentemente concluso ad Aosta sul tema “Teosofia e vita quotidiana”, a proposito del titolo di questa relazione mi ha detto: “Antonio, ma cos’hai voluto dire con questo titolo? Mica si capisce tanto bene!” Sul momento mi sono un po’ preoccupato, ma spero che, percorrendo insieme le riflessioni che esporrò, almeno la relazione – se non il titolo - risulterà del tutto chiara.

Per una persona che non crede nella retorica nessuna risposta è scontata ed è proprio per questo che vi propongo che “attorno” alla Pace ciascuno di noi risponda – affermativamente o meno - alla domanda: “La pace cambierà davvero il mio cammino?”

Come i bambini

I recenti accadimenti internazionali hanno riportato l’attenzione dell’occidente e degli uomini di buona volontà sul tema della pace, del suo significato e della sua importanza; una riflessione ad un tempo concreta e politica, ma anche etica e filosofica.

         Per ben comprendere il significato della pace è necessario innanzi tutto prescindere da alcune associazioni mentali che spesso accompagnano questa parola come una sorta di “reazione” alla paura ed all’incertezza che accompagnano una realtà spesso fortemente connotata da valenze di odio e di violenza. Dovremmo fare un po’ quello che fanno i bambini brasiliani quando ripetono, con la leggerezza che soltanto l’innocenza può dare, la filastrocca che dice:

“A verdade prova que o tempo è o senior

dos dois destinos, dos dois destinos

Ja que pra ser homem ten que ter

a  grandeza de um menino, de um menino

No coracao de quem faz a guerra

nascera uma flor amarela

Como um girassol

Como um girassol

Como um girassol amarelo, amarelo”.

(La verità dimostra che il tempo è il signore/dei due destini, dei due destini/Poiché per essere uomini bisogna avere la grandezza dei bambini, dei bambini/Anche nel cuore di chi fa la guerra/nascerà un fiore giallo/Come un girasole/Come un girasole/Come un girasole giallo giallo.)

Ricognizione sul significato lessicale e storico culturale della pace

La parola pace deriva dal latino pax, che ha come radice pak/pag, che si ritrova in pangere = fissare ed in pactum = patto.

Potremmo forse affermare che pangere può avere relazione con il fissare la consapevolezza della coscienza nell’osservazione e che pactum può riconnettersi anche ad un patto con se stessi per scegliere la via spirituale nonché, ad un livello più profondo di significato, all’unità fra l’azione di osservare e l’oggetto che è destinatario dell’azione.

Fra i tanti significati che il vocabolario ci offre per la parola “pace”, quello che più interessa la nostra ricerca è forse correlato a quello di “stato di tranquillità e serenità spirituali, non turbate da timori, affanni, passioni”.

Cicerone affermava che “Pax est tranquilla libertas” (1).

Per Hobbes prima e Kant poi la pace fra gli uomini non è uno stato di natura e pertanto esso deve essere istituito.

Più vicino alla concezione spirituale è il concetto metafisico di pace in Witehead, che la intende come “l’armonia delle armonie”, in grado di placare la turbolenza distruttiva e di completare la civiltà (2).

Nella tradizione filosofica dunque la Pace ha sovente il significato di cessazione dei conflitti, esteriori ed interiori.

E’ verso una Città della Pace che conduce una delle navigazioni presenti nel Libro dei Morti dell’Antico Egitto. Questa grande Pace è presente nella cultura cinese ed è la sakinah araba e la shekina ebraica, nel significato di “presenza reale del dio”.

E’ anche la Pax profonda dei Rosa Croce, il Grande Rifugio delle confraternite medioevali, la pace nel vuoto di cui parla Lie-tzu e la tranquillità yogica di Shankaracharya.

La Pace di Cristo, così cara ai Padri greci, è uno stato di contemplazione spirituale. Presso gli Indù la Shanti è la ricerca della pace interiore e per i buddisti lo stato di pace tende a coincidere col Samadhi. La Grande Pace, in definitiva coincide, nella cultura religiosa orientale, con il Nirvana (3).

Nella tradizione greco-latina la pace è spesso associata poeticamente all’arcobaleno, simbolo di quiete dopo la tempesta, di unione fra il cielo e la terra e fra la realtà materiale e quella spirituale. La personificazione dell’arcobaleno era rappresentata da Iride, la celeste messaggera degli dei, figlia di Taumante e della ninfa oceanina Elettra, nonché sorella delle Arpie. Secondo la mitologia greca era particolarmente addetta al servizio di Giunone, regina degli Dei, come consigliera e portatrice di saggezza. Ma il suo compito più delicato (e tutto da intuire) era quello di portare all’Olimpo l’acqua del fiume infernale Stige, perché gli Dei potevano fare i loro giuramenti solo versando quell’acqua (4).

Anche nel mondo dell’arte e della scienza esistono dei riferimenti preziosi per favorire una profonda riflessione sulla Pace.

In campo artistico ne è un prezioso esempio il ciclo pittorico all’interno del Battistero del Duomo di Padova, rappresentato dagli affreschi di Giusto de’ Menabuoi (secolo XIV). In esso vi è una parte dedicata al momento in cui il Cristo è raccolto in preghiera, nell’orto di Getsemani, sul Monte degli Ulivi, a Gerusalemme; gli Apostoli sono lì a pochi passi, esausti ed ormai in preda al sonno. Gesù, che sta rimettendo la propria volontà nelle mani del Padre, li aveva pur invitati a restare desti ed a pregare, ma per ben tre volte essi erano stati sopraffatti dal sonno (5).

In questa parte dell’opera pittorica del ciclo di Giusto de’ Menabuoi la pace è direttamente correlata al volto del Cristo, vero e proprio “ponte” fra il cielo e la terra. Pace dunque non è tanto inazione o abbandono, quanto piuttosto meditazione in atto, dimensionamento globale, focalizzazione nell’essere della dimensione cosmica, presente nel singolo essere quale “rappresentante” del tutto.

Lo stupendo affresco di Giusto de’ Menabuoi, con Gesù Cristo che prega nell’orto di Getsemani, può essere simbolicamente collegato, in una sorta di yantra che coinvolge Padova, Gerusalemme ed Adyar, con il medaglione dello scultore indiano K.Venkatappa che illustra ad Adyar, nel salone d’ingresso della Società Teosofica, la “rinuncia del principe Siddharta”.

Questo principe della casa di Kapilavastu, ha potuto acquisire una completa percezione del “Sé reale” soltanto quando ha rinunciato ai legami dei sensi e della personalità. Solo così ha imparato a non separare il “Sé reale” dagli altri Sé; a imparare per esperienza l’intrinseca irrealtà (illusione) di tutti fenomeni, conseguendo così un completo distacco da tutto ciò che è evanescente e finito, e vivere nell’immortale sempiterno, che è pace.

La rinuncia agli illusori valori del passato e del futuro ci permette di vivere la realtà di questi due mantra delle Ishavasyupanishad: “Colui che vede sempre ogni vivente creatura in Dio e Dio in tutte le crature, non sente antipatia o disgusto verso alcuno” e “Colui nella cui coscienza tutti gli esseri viventi sono stati trasformati in differenti espressioni di Dio, non soffrirà delusioni, non proverà alcun dolore, alcuna afflizione”.

C’è uno stato di pace nella materia?

Dopo questa sorta di ricognizione che ci ha permesso di constatare quanto vasta e articolata sia la riflessione umana sulla Pace, dovremmo anche investigare se vi sia un rapporto fra la pace e la struttura della materia, nelle sue articolazioni e dimensioni spazio temporali. Dovremmo cioè cercare di rispondere alla domanda: “C’è uno stato di “pace” nella materia?

Anche questa riflessione ci aiuta a comprendere quanto sia fallace l’equazione pace = quiete, nella sua accezione di inazione.

In realtà la pace non ha a che fare con la staticità, quanto piuttosto con l’armonia.

Diventa per questo interessante riconsiderare la teoria della relatività ristretta di Albert Einstein, con il suo mettere in relazione di equivalenza la massa con l’energia, quasi ad aprire la strada –in uno spazio-tempo inestricabilmente interconnesso - ad una stretta correlazione fra spirito e materia (6).

Dopo Einstein, negli Anni Ottanta del secolo scorso, di grande interesse per il ricercatore spirituale si è pure dimostrata la teoria delle stringhe, in grado di reinserire il concetto di “vibrazione” nella comprensione della realtà, legandolo a masse e cariche associate a forze (7).

La pace come Antahkarana

Nella vastissima letteratura teosofica vi è la ripresa di un concetto orientale che può ben spiegare il “processo” rappresentato dalla pace; si tratta del concetto di Antahkarana, che viene così definito nel “Glossario Teosofico” da H.P. Blavatsky: “E’ quel sentiero o ponte fra il manas superiore e quello inferiore, fra l’ego divino e l’anima personale dell’uomo. Esso serve come mezzo di comunicazione fra i due e trasporta dall’ego inferiore a quello superiore tutte le impressioni personali ed i pensieri dell’uomo che possono essere, per la loro natura, assimilati e accumulati nell’Entità immortale e in questo modo divenire immortali con essa; questi sono gli unici elementi della Personalità evanescente che sopravvivono alla morte ed al tempo. Ne deriva perciò che soltanto quello che è nobile, spirituale e divino nell’uomo può testimoniare per l’eternità che l’uomo ha vissuto” (8).

Il concetto  di Antahkarana apre le porte alla necessità che la coscienza umana vada a caratterizzarsi sempre più in termini di consapevolezza spirituale. Scrive in proposito H.P. Blavatsky ne La Dottrina Segreta: “Tutto quello che esiste ha solo una realtà relativa e non assoluta, poiché l’aspetto che il noumeno nascosto assume, per ciascun osservatore dipende dal suo grado di comprensione. Il cammino verso l’alto dell’Ego è una serie di risvegli progressivi, ciascuno dei quali porta con sé l’idea che ora, alla fine, abbiamo raggiunto la “realtà”; ma solo quando saremo arrivati alla consapevolezza assoluta e ci saremo fusi con essa, saremo liberi dalle illusioni prodotte da Maya (9).

Ma per far sì che la consapevolezza si esprima appieno occorre superare il proprio egoismo. Afferma Jiddu Krishnamurti: “L’egoismo divide, l’egoismo è la più grande corruzione (la parola corruzione significa spezzare e dividere) e dove c’è egoismo c’è frammentarietà - il tuo interesse opposto al mio interesse, il mio desiderio opposto al tuo desiderio, la mia ansia di salire la scala del successo opposta alla tua…….Quando iniziate ad essere spassionatamente consapevoli del vostro egoismo, a sopportarlo, studiandolo, imparando, osservandone tutte le complicazioni, allora potete scoprire quando è in atto e quanto sia completamente inutile” (10).

Pace oltre i processi della mente

Per comprendere la Pace occorre fare preciso riferimento alle modalità di funzionamento della mente, a livello del manas inferiore, così come viene definito dalla letteratura teosofica.

La mente focalizza le immagini, con il loro contorno di emozioni, attraverso un processo associativo: vedo un oggetto, lo considero e lo valuto e da qui – attraverso il desiderio - parte un processo di associazione che si muove nella dimensione spazio temporale attraverso una logica dominata dall’obiettivo e che mira in ultima analisi, al “possesso” di ciò che ha innescato il processo cognitivo.

Se osserviamo con attenzione possiamo notare che il processo in questione ha a che fare sia con gli oggetti e gli aspetti materiali sia con l’accumulazione della conoscenza sia ancora con gli obiettivi “spirituali”.

Mi accorgo che il mio essere non è in pace e metto in atto una pratica, un movimento che me la faccia raggiungere. Considero dunque l’azione non nel “qui ed ora”, ma nella sua successione dinamica, attraverso una valutazione che deriva non dall’atto di percepire, ma dall’esperienza, in molti casi così come ci viene proposta, descritta e interpretata da soggetti terzi che rappresentano a vario titolo “un’autorità”, culturale o spirituale che sia.

In questo movimento della mente inferiore la ricerca della pace, delle sue definizioni e pratiche, ci allontana in realtà dal nocciolo della questione, che consiste nel superamento del dualismo divergente fra osservatore e cosa osservata.

La pace dunque ha poco a che fare con le visioni manichee e dualistiche del mondo ed anche con quelle che si basano su una autorità esterna. Nella separatività connessa ad una visione del mondo in movimento verso un qualche obiettivo sta l’illusione discriminante che alimenta un mondo fatuo, fatto di schemi, di dottrine, di pratiche caricate di significati esterni. E’ questa la mente in atto, nella sua accezione di “distruttrice del reale”. E questa catena illusoria è quella che ha caratterizzato e caratterizza la vita dell’essere umano, alimentando odi, violenze, terrori e terrorismi, interni o esterni che siano all’essere umano.

Nel secolo scorso forse nessuno come Jiddu Krishnamurti ha saputo descrivere questo processo e forse nessuno ha saputo nel contempo ridare una reale speranza all’essere umano.

E’ una speranza che si basa, paradossalmente, sull’estrema radicalità del pensiero krishnamurtiano, che attribuisce all’osservazione non condizionata la capacità di liberare le coscienze nel qui ed ora.

Il processo di osservazione diventa dunque vera e propria meditazione, una meditazione non basata su qualcosa di “esterno” (un mantram, una tecnica, una concezione del mondo), ma sul semplice atto di osservare.

La conseguenza è immediata ed evidente: il focus non è più sull’accumulazione delle conoscenze, ma sulla liberazione (kenosis) dal noto, cioè sulla libertà dal conosciuto.

Pace in questo senso non è quindi un risultato o uno stato dell’essere da conservare o alimentare. Pace è l’osservazione stessa, è meditazione in atto.

In tutto questo diventa fondamentale partire da quello che siamo; afferma J.Krishnamurti: “Dunque dobbiamo partire da ciò che ci sta vicino, ossia dobbiamo occuparci della nostra vita quotidiana, dei nostri pensieri, sentimenti e azioni di tutti giorni, che si manifestano nel modo in cui ci guadagniamo da vivere e nel rapporto che abbiamo con le idee e con le credenze” (11).

L’insieme del processo dell’osservazione converge nel qui ed ora ed anche questo rappresenta qualcosa di “liberante” e che è in grado di rendere responsabile l’essere umano. Nel qui ed ora non sono infatti possibili autocompiangimenti o spostamenti temporali del processo di retta comprensione.

Nel qui ed ora l’eterno si sposa col presente, è anzi il presente. E la vita intera, nella sua unità, è nell’atto stesso di osservare.

Ne emerge un concetto totalizzante di sacralità; afferma ancora J. Krishnamurti: “Sapete che cos’è la religione? Non è nelle preghiere salmodiate, né nel compimento di un rito, né nell’adorazione di dei di latta o di immagini di pietra, non è nei templi e nelle chiese né nella lettura della Bibbia o della Bhagavadgita, non consiste nel ripetere un nome sacro o nel seguire qualche altra superstizione inventata dagli uomini. Nulla di tutto ciò è religione.

La religione è il sentimento di bontà, quell’amore che è simile ad un fiume, vivo, eternamente in movimento. In quello stato scoprirete che arriva un momento in cui ogni ricerca cessa del tutto; e la fine della ricerca è l’inizio di qualcosa di totalmente differente: la ricerca di Dio, della verità, il sentirsi completamente buoni - non il coltivare la bontà e l’umiltà, ma il cercare qualcosa al di là delle invenzioni e dei trucchi della mente, il che significa sentire quel qualcosa, vivere in esso, esserlo – quella è la vera religione. Ma ciò è possibile solo se lasciate la pozza che vi siete scavati e vi gettate nel fiume della vita. Allora la vita vi stupirà prendendosi cura di voi, poiché voi non ve ne prenderete più cura. La vita vi porterà dove vorrà perché ne siete parte” (12).

Comprendere il processo della percezione per arrivare al concetto di Fratellanza Universale senza distinzioni

La pace ha certamente a che fare con un approccio di tipo spirituale alla vita. Se osserviamo l’incedere degli eventi e lo sviluppo delle normali dinamiche del vivere rileviamo che la manifestazione, quanto più si avvicina ai livelli densi della materia e cioè al livello mentale inferiore, astrale e fisico, tanto più appare caratterizzata da contrasti, opposizioni e lotte.

In realtà il nodo fondamentale è che spesso l’uomo giudica e vede gli accadimenti che si svolgono su questi piani con gli “occhi” e le conoscenze limitate che appartengono a questo parziale livello di coscienza.

Si tratta dunque di un imperfetto livello di comprensione e di visione. La realtà più propriamente materiale andrebbe invece considerata alla luce anche degli altri piani che caratterizzano la vita, a partire da quello dell’intuizione e della mente astratta.

Questa considerazione fa intravedere come uno dei limiti dell’approccio alla conoscenza dell’uomo sia rappresentato dal suo valutare le cose partendo dai piani più densi della materia, rimanendo quindi fortemente condizionato dagli stessi.

Che cosa accadrebbe invece se l’essere umano considerasse il piano materiale come un “effetto” di quello spirituale, con la conseguente necessità di “aprire” il livello della materia alla superiore comprensione propria del mondo degli archetipi? Probabilmente in questo caso la nostra comprensione del mondo cambierebbe radicalmente; ma perché ciò accada sono necessarie almeno tre condizioni:

1.    che la vita venga considerata nella sua unità e che quindi il piano spirituale e quello materiale non vengano visti come due realtà separate e contrapposte, ma come un unicum; con la conseguenza che nelle aggregazioni della vita anche la realtà materiale più densa non cessa di contenere una parte spirituale;

2.    che l’approccio sia alla conoscenza che alla relazione avvenga non condizionato da dogmi e ideologie, con la conseguenza che questi due processi fondamentali dell’esistenza possono vedere in azione un uomo totalmente aperto, tollerante, pronto al nuovo, capace di “usare” le strutture mentali e non di esserne usato;

3.    che la visione della vita tenga in considerazione simultaneamente l’intera struttura dell’uomo, tradizionalmente suddivisa in 7 piani nell’approccio teosofico, con la conseguenza di “nobilitare” i piani più vicini alla nostra normale percezione nella misura in cui risultano aperti all’influenza di una dimensione spirituale non più separata e vista come esterna, ma perfettamente in atto, nel qui ed ora.

In quest’ottica la dimensione del tempo muta radicalmente e la vita appare sempre più un continuum e non come un movimento segmentato.

E’ tempo ora di chiedersi se vi sia un rapporto fra la Pace e la Fratellanza Universale senza distinzioni, che è il principale tratto distintivo della Società Teosofica. Appare evidente che la relazione c’è ed è molto stretta.

         E’ proprio nella Fratellanza Universale senza distinzioni che la Pace trova la sua reale concretizzazione e, a sua volta, la Fratellanza Universale senza distinzioni è condizione necessaria affinché si instauri una reale dimensione di Pace dell’umanità.

La Fratellanza va qui vista non soltanto nella sua dimensione esterna e sociale, ma anche come intima dimensione di una coscienza orientata a trovare le tracce dell’universale nel particolare, dell’eterno nel tempo, del tutto in ogni espressione della vita.

In quest’ottica il diverso da noi, ben lungi da costituire una minaccia, finisce per essere elemento di ricchezza, testimoniando l’energia creatrice della vita una, capace di esprimersi nelle infinite forme.

La pace come Teosofia nella vita quotidiana

         Poiché la Teosofia è strettamente connessa alla dimensione della realtà spirituale, appare chiaro che non vi può essere cesura fra la ricerca spirituale e la pragmatica realtà del quotidiano. Un approccio autenticamente spirituale fa sì che appaiano in tutta la loro illusorietà le visioni del mondo che si basano su una segmentazione della realtà in compartimenti stagni. Di conseguenza così come la vita mostra la sua unità nel saper fondere la realtà spirituale con quella materiale, anche la quotidianità esprime la sua possibilità di essere vera palestra dell’essere e dunque anche “luogo” di pace.

         Afferma infatti  H.P.B.: “Lo Spirito (o Coscienza) e la Materia devono, tuttavia, essere considerati non come realtà indipendenti, ma come i due simboli o aspetti dell’Assoluto (Parabrahman), che costituiscono le basi dell’Essere condizionato soggettivo e oggettivo”.

Nella quotidianità il karma, la legge di azione e reazione che mantiene in equilibrio l’universo, esprime la sua compiutezza. Non va mai dimenticato che nel quotidiano abbiamo sia la possibilità di agire nell’ottica del Servizio sia di trasformare la Vita in una vera palestra della ricerca della verità. La vera sfida è quella di portare nel quotidiano il Bello, Il Buono ed il Vero; il tutto in una logica di Servizio che ci conduca alla Fratellanza universale senza distinzioni.

Ciò dipende in parte dalla nostra volontà e dal nostro atteggiamento mentale; afferma un proverbio cinese: “Se guardi il cielo dal fondo di un pozzo è un buco, se lo guardi dall’alto di un monte, oltre il cielo c’è ancora altro cielo”.

Ebbe ad affermare un caro amico teosofo: “Gli uomini di buona volontà non pretendono di essere amati: essi amano. Non pretendono che gli altri si comportino bene: essi non fanno agli altri ciò che non vorrebbero fosse fatto a se stessi. Non parlano soltanto: essi agiscono”.

Riecheggiano le parole della Bhagavadgita: "Compi dunque l’azione dovuta, perché l’agire è migliore dell’inattività; senza l’azione non sarebbe possibile far sopravvivere il tuo corpo. Al di fuori dell’azione basata sul sacrificio [agire non vincolante] il mondo è vincolato all’azione; compi dunque l’azione in funzione sacrificale, libero da attaccamento.”

Affinché l’azione acquisti un valore sacrificale e diventi dunque “sacra” ed in grado di esprimere compiutamente la pace è necessario considerare non soltanto le vie della mente, ma anche quelle del cuore, nell’accezione poetica che ne dava il grande mistico e poeta sufi Rumi: “Il cuore è un giardino segreto in cui vanno a nascondersi gli alberi: si manifesta in cento forme, ma ne ha una sola. E’ un oceano immenso, senza fine, in cui vanno ad infrangersi le onde, le onde di ogni anima”.

La magia del cuore si manifesta solo quando si hanno il coraggio e la determinazione a togliere potere al proprio ego e alla propria mente. Come fare? La consapevolezza della nostra buddità da’ due componenti che dobbiamo imparare a unificare: dilatare il momento presente fino a farlo coincidere con l’Eternità e applicare una pratica compassione verso tutti gli esseri viventi. E’ utile ricordarsi, al di là delle apparenze, che siamo tutti sulla stessa barca e soprattutto che siamo tutti infinite sfaccettature della stessa anima universale. Il ricordarselo o meno crea la differenza fra l’ordinaria misera e limitata condizione umana e le vette dell’illuminazione interiore.

(Intervento in occasione della Convenzione Nazionale della Sezione Francese della Società Teosofica, Parigi, 22 giugno 2003).

NOTE

1.      In Filippide 2,44,113;

2.      Adventures of Ideas, XX, citato da Nicola Abbagnano in Dizionario di Filosofia, UTET Torino 1971 pag.646;

3.      J.Chevalier e A. Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Vol. II BUR Milano 1986, pag. 178;

4.      Bernardino del Boca, La Casa nel Tramonto, Edizioni L’Età dell’Acquario, Torino, 1982, pag. 54;

5.      Matteo 26,36-46;

6.      La teoria della relatività ristretta trae origine da una serie di articoli pubblicati da Einstein nel 1905. Alla relatività ristretta fece poi seguito la relatività generale. Una conseguenza assai importante  della relatività è il rapporto fra massa ed energia. Del postulato di Einstein secondo cui la velocità della luce è identica per tutti gli osservatori discende che niente si muove più rapido della luce. Quando si usa energia per accelerare un corpo, sia questo una particella o un’astronave, la massa del corpo aumenta, rendendo più difficile accelerarlo ancora. Di conseguenza è impossibile accelerare una particella fino alla velocità della luce, perché occorrerebbe una quantità infinita di energia (cfr. Stephen Hawking, L’universo in un guscio di noce, Mondadori, Milano, 2001 pag.16);

7.      Gli oggetti fondamentali della teoria delle stringhe non sono particelle che occupano un singolo punto dello spazio, ma stringhe unidimensionali che possono avere estremità o chiudersi ad anello (loop). Come le corde di un violino queste stringhe “vibrano” o “risuonano”. Ma mentre le diverse risonanze delle corde di un violino danno origine a diverse note musicali, le oscillazioni di una stringa danno origine a masse e cariche differenti, che sono interpretate come particelle fondamentali. In parole povere, più corta è la lunghezza d’onda dell’oscillazione sulla stringa, più grande è la massa della particella (cfr idem ibidem pag.56);

8.      H.P. Blavatsky, Glossario Teosofico, Edizioni Sirio, Trieste;

9.      Citazione dall’articolo di Radha Burnier “L’Arte di Vivere”, pubblicato su “The Teosophist” nel novembre 2002;

10. J. Krishnamurti, Gli ultimi discorsi - Saanen 1985, Ubaldini Editore, Roma pag. 70-72;

11. J.Krishnamurti, La ricerca della felicità, BUR, Milano 1993, pag 6;

12. idem ibidem pag. 166-167;

13. H.P. Blavatsky, La Dottrina Segreta - Cosmogenesi;

14. Bernardino del Boca, rivista L’ Età dell’Acquario, Bresci Editore, 1973.

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